La Lega prova a cancellare i ballottaggi a meno di tre mesi dalle prossime amministrative. Il blitz si svolge al Senato, dove mercoledì si votava il decreto Elezioni, ovvero la conversione del decreto legge 7/2024 sulle consultazioni elettorali del 2024.

Dopo l’esame in commissione Affari costituzionali, il partito di Matteo Salvini ha depositato due emendamenti di bandiera. Uno riproponeva il terzo mandato per i presidenti delle regioni, come già aveva fatto in commissione Affari costituzionali, dove però la stessa maggioranza lo aveva bocciato.

L’altro emendamento cancellava i ballottaggi: cioè la possibilità per i sindaci, nei comuni con più di 15mila abitanti, di essere eletti al primo turno superando il 40 per cento. Per tutto il giorno le opposizioni hanno gridato al «blitz» e anche al «golpe». È scesa in campo anche la segretaria dem Elly Schlein: «La Lega si fermi, è uno sfregio alle più basilari regole democratiche».

Il Pd, per bocca del presidente dei senatori Francesco Boccia, ha minacciato di rivolgersi al presidente della Repubblica contro «la prassi intollerabile» dell’ennesima riforma per decreto. La vicepresidente del gruppo dei Cinque stelle, Alessandra Maiorino, ha parlato di «nuovo attacco alle regole della democrazia».

Ma nel pomeriggio è stata soprattutto l’Anci, l’associazione dei comuni, a tuonare il suo no. E a convincere palazzo Chigi a non aprire la guerra con i sindaci alla vigilia del voto. A parlare il presidente Antonio De Caro: «Non crediamo che uno stravolgimento della legge sull’elezione diretta dei sindaci possa essere ipotizzato senza interpellare i comuni. Speriamo che la proposta venga ritirata, anche perché andrebbe a intaccare alle fondamenta un sistema che fino a oggi ha funzionato nell’interesse dei cittadini».

Il passo indietro

Ed è qui che fonti del governo hanno fatto sapere di aver chiesto alla Lega di ritirare l’emendamento, e di trasformarlo in un ordine del giorno. In serata, in aula, va così. Ma si tratta solo di rimandare il tema a momenti migliori, non lontano. E infatti la sottosegretaria all’Interno Wanda Ferro assicura che «non c’è nessun conflitto nella maggioranza». E Maurizio Gasparri, di Forza Italia, avverte che lo stop ai ballottaggi è solo momentaneo: «Questa riforma comunque si farà».

Le divergenze più consistenti a destra si misurano sul terzo mandato ai presidenti di regione. La Lega incassa un nuovo no. Ma con la mossa si intesta comunque la battaglia. Per due motivi: rassicurare il proprio elettorato sulla fedeltà di Salvini ai vecchi valori leghisti (e al governatore veneto Luca Zaia, che peraltro è già al terzo mandato in virtù di una interpretazione dello statuto regionale), e mettere il cappello su questioni che saranno riprese più avanti.

E se sul terzo mandato c’è il no roccioso delle premier Meloni, sullo stop ai ballottaggi c’è invece l’interesse inequivocabile dell’intera maggioranza, a vantaggio di tutti i sindaci che il centrodestra potrebbe guadagnare se non rischiasse il ribaltone dei risultati al secondo turno, quando il voto a due polarizza lo scontro fra candidati e spesso favorisce la riunione dei voti del centrosinistra.

Il leghista Massimiliano Romeo prende in giro le opposizioni: «Dovreste essere favorevoli, tutto sommato favorisce il campo largo».

Il Pd rivota no

Quanto al terzo mandato, il tema spacca anche le opposizioni. Più precisamente il Pd. Il no già espresso in commissione aveva fatto scatenare l’ira dell’area riformista, capitanata dal presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, a cui non dispiacerebbe tentare la terza conferma anziché candidarsi alle elezioni europee. Il Pd conferma il no in aula, insieme al Movimento 5 stelle.

Come premio di consolazione alla minoranza interna, i dem presentano un ordine del giorno che promette di riaprire il dibattito sul tema, ma con calma e più avanti, nel corso della futura revisione del Testo unico degli enti locali: per il momento viene chiesto al governo di avviare «un percorso di riforma volto a superare le criticità manifestatesi nel corso di questi anni e, più in generale, a migliorare la capacità rappresentativa e di governo di tali fondamentali livelli istituzionali, affrontando in tale sede anche la questione della ridefinizione del numero dei mandati consecutivi degli organi di vertice degli enti territoriali, del rafforzamento dei “temperamenti di sistema” e del ruolo e della funzione delle assemblee elettive».

Al Senato passa anche il voto per gli studenti fuorisede là dove studiano, anche se in via solo sperimentale: in aula Fratelli d’Italia rivendica il risultato di una battaglia «dei giovani di destra». La sinistra, che a parole questa battaglia l’ha fatta – accompagnando da ultimo per esempio le associazioni Voto dove vivo e The Good Lobby – ma nei fatti senza convinzione e quindi senza esito, mastica amaro: e si lamenta che siano restati fuori i cittadini fuorisede per ragioni di lavoro o di cura.

Basilicata all’ultimo litigio

In aula al Senato Pd e M5s restano uniti. Ma per tutto il giorno fra Roma e Potenza corre un brivido. Si lavora all’impazzata sul nuovo candidato presidente della Basilicata. Mercoledì Angelo Chiorazzo, l’imprenditore che il Pd aveva scelto e che i Cinque stelle hanno bocciato, era a Potenza, ma in collegamento permanente con il Nazareno e con il presidente M5s Giuseppe Conte. In serata, dopo un’altra serie di nomi bocciati, è arrivata l’intesa.

Il candidato del centrosinistra sarà Domenico Lacerenza, 66 anni, primario del reparto di Oculistica dell’ospedale San Carlo di Potenza. Un segnale all’ultimo secondo per cercare di compattare tutti sul tema della disastrosa gestione della sanità lucana.

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