Silvio Berlusconi doveva rappresentare la parte moderata che bilancia gli eccessi di destra della coalizione. Ma è proprio da lì che è arrivato il primo scivolone della campagna elettorale: le parole sul presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

Intervistato a Radio Capital, il Cavaliere ha parlato della riforma costituzionale in senso presidenziale prevista nel programma di governo, definendola un sistema che «esalta la democrazia, consentendo al popolo sovrano di scegliere direttamente da chi vuole essere governato». E ha aggiunto: «Se entrasse in vigore il presidenzialismo, le dimissioni di Mattarella sarebbero necessarie per andare all’elezione diretta di un nuovo presidente, che potrebbe essere ancora lui».

A poco sono servite le sue spiegazioni successive, in cui dice di non aver mai «attaccato il presidente». Le sue parole hanno tirato il Colle dentro la contesa, provocando durissime reazioni da parte del centrosinistra e un silenzio imbarazzato da parte degli alleati di centrodestra. Enrico Letta ha parlato di «autocandidatura al Quirinale» di una «destra che vuole sfasciare tutto», Carlo Calenda ha detto che Berlusconi non è più in sé.

Silenzio a destra

Sul fronte del centrodestra, invece, a parte qualche difesa di rito da parte dei parlamentari di Forza Italia, nessuno commenta le parole del Cavaliere. Giorgia Meloni e Matteo Salvini le ignorano, sperando che il clamore cali presto. Difficile che accada: le parole di Berlusconi sono sgrammaticate a livello istituzionale e potenzialmente deflagranti per il centrodestra, impegnato a placare i timori internazionali.

Sul piano giuridico, anche se una riforma costituzionale di tipo presidenzialista venisse approvata, le modifiche entrerebbero in vigore al termine dell’attuale mandato presidenziale e Mattarella non avrebbe alcun dovere di dimettersi. Tuttavia, anche solo ipotizzarlo significa mettere in discussione il ruolo di garanzia della presidenza della Repubblica sia in fase elettorale che, soprattutto, in quella di formazione del prossimo governo. L’aspettativa di dimissioni, tuttavia, sembra sottintendere quella che è da sempre l’ambizione di Berlusconi: arrivare al Quirinale.

«Il nodo non sta in quello che accadrebbe dopo le eventuali riforme costituzionali, ma già all’indomani del voto, perché una maggioranza orbaniana si comporterebbe come se dovesse già sfrattare Mattarella e liberarsi dei vincoli Ue sullo stato di diritto», ha riassunto il costituzionalista e deputato del Pd Stefano Ceccanti.

Parole che, in dieci secondi di trasmissione radiofonica, smontano il paziente lavoro di Meloni nel tentare di rassicurare i vertici internazionali ed europei del fatto che un governo di centrodestra non debba spaventare.

Invece, il ragionamento di Berlusconi tradisce da un lato l’eccitazione elettorale per un successo ampio che viene dato per scontato, ma anche la volontà di rivincita sulle istituzioni da cui si mai si è sentito pienamente accolto. Risultato: il cavaliere solleva il velo sottile sui veri obiettivi delle riforme costituzionali previste dal centrodestra e fino a ora raccontate come propositi lontani e preceduti da molte premesse. Invece, già vengono recapitati avvisi di sfratto alle istituzioni attualmente insediate.

 

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