Nel giro di quarantotto ore tre tribunali italiani – Palermo, Belluno e Torino – hanno dato torto al governo Meloni sulla canapa industriale. Le pronunce, tutte depositate tra il 12 e il 14 ottobre, smentiscono l’impianto del decreto sicurezza che aveva equiparato la cannabis light agli stupefacenti, imponendo una stretta che da mesi paralizza il settore agricolo e commerciale. I giudici hanno ribadito un principio elementare: senza analisi di laboratorio che certifichino la presenza di Thc oltre i limiti di legge, non esiste alcun reato.

A Belluno, la procura ha disposto la scarcerazione immediata di un coltivatore arrestato il 10 ottobre, precisando che «non risultano indici univoci di spaccio» e che il solo peso del materiale non può fondare accuse di traffico. Il decreto di liberazione, emesso ex art. 121 disp. att. c.p.p., chiarisce che fino all’esito di accertamenti tecnico-analitici «non è possibile stabilire la gravità in concreto della condotta». Analoga la posizione del tribunale di Palermo, che ha annullato il sequestro di infiorescenze in un’azienda agricola: il giudice ha escluso l’esistenza di prove sull’efficacia drogante e ha ricordato che la conformità botanica non basta per configurare un illecito. A Torino, infine, il pubblico ministero ha chiesto e ottenuto l’archiviazione di un procedimento per vendita di canapa light perché «il fatto non sussiste»: i test avevano rilevato la presenza di Thc, ma senza indicarne la percentuale.

Conta la verifica

In tutti e tre i casi, i magistrati si sono richiamati alla relazione n. 33/2025 dell’Ufficio del Massimario della Cassazione, secondo cui l’articolo 18 della legge 80/2025 non introduce un divieto assoluto, ma ha valore puramente ricognitivo rispetto al quadro preesistente. La legge insomma deve essere interpretata in modo conforme alla Costituzione e al diritto dell’Unione europea, imponendo la verifica "tecnico-scientifica dell’offensività in concreto".

Il dato scientifico diventa dunque il discrimine tra lecito e illecito. I narcotest di campo, usati di routine dalle forze dell’ordine, sono stati ritenuti strumenti non idonei perché rilevano genericamente la presenza di cannabinoidi, dando quasi sempre esito positivo anche per prodotti legali. Senza una quantificazione del Thc attivo – misurato dopo la decarbossilazione e in contraddittorio con il produttore – non è possibile privare un cittadino della libertà personale né bloccare un’attività economica.

I giudici indicano una strada uniforme: campionamento rappresentativo, doppio campione per controanalisi, catena di custodia, analisi presso laboratori accreditati e misura del Thc "attivo" su campione a peso costante. È la sequenza minima per evitare sequestri «a vista» e procedimenti destinati a cadere all’esito delle verifiche, con costi a carico dei contribuenti e danni alle aziende agricole.

Il presidente di Canapa Sativa Italia, Mattia Cusani, parla di una svolta attesa: «Le corti stanno riconoscendo che la legge 80 è solo ricognitiva della normativa già esistente e delle Sezioni Unite del 2019. Quello che era legale resta legale, quello che era illegale resta illegale». Cusani segnala dissequestri imminenti, cause civili di accertamento in più distretti e il contenzioso ancora aperto sulle “officinali”, cioè sulla non inclusione della canapa tra le piante medicinali autorizzate alla coltivazione e trasformazione. Una questione che il Consiglio di Stato dovrà chiarire nelle prossime settimane, dopo che la categoria ha vinto in primo grado.

Italia esportatrice

Il settore, come ricorda la giurisprudenza più recente e gli atti di causa, non è un’anomalia: parliamo di una filiera agricola e para-industriale che negli ultimi anni ha mobilitato investimenti, occupazione e indotto, con l’Italia tra i principali esportatori europei. La chiusura del canale infiorescenze drenerebbe centinaia di milioni e migliaia di posti di lavoro, senza alcun beneficio misurabile in termini di sicurezza pubblica: i precedenti di Trento e di altre corti mostrano che sotto lo 0,3 per cento di Thc «non sussistono rischi tali da giustificare un divieto assoluto». Anche per questo la stessa Cassazione ha richiamato il principio di proporzionalità e l’offensività in concreto come bussola per le Procure.

Le decisioni di Palermo, Belluno e Torino arrivano a un anno dal decreto voluto dai ministri Piantedosi e Lollobrigida, che aveva equiparato le infiorescenze di canapa agli stupefacenti. Già a settembre, il tribunale di Trento ha affermato che un contenuto di Thc inferiore allo 0,6 per cento «non comporta rischi tali da giustificare un divieto assoluto di commercializzazione». Ora le nuove ordinanze consolidano una giurisprudenza che sposta il baricentro dall’ideologia alla verifica scientifica, mentre a Bruxelles avanza l’armonizzazione: l’uso dell’intera pianta in ambito agricolo e una soglia Ue più coerente con il mercato interno sono all’ordine del giorno.

Per Cusani, «le istituzioni italiane stanno solo prendendo tempo». Intanto, però, i tribunali chiedono metodi, non slogan: niente automatismi punitivi, sì a controlli seri e comparabili in tutta Italia. In assenza di prove sull’efficacia drogante, la canapa resta legale. E il decreto sicurezza, ancora una volta, vacilla sotto il peso dei fatti e delle sentenze.

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