Il Tribunale di Trento ha affermato che produrre e vendere cannabis light è legale, smontando l’articolo 18 del decreto sicurezza approvato in aprile dal governo Meloni. Nell’ordinanza depositata il 5 settembre, il giudice scrive che «allo stato dei dati scientifici» un contenuto di THC inferiore allo 0,3% non comporta rischi tali da giustificare un divieto assoluto di commercializzazione.

Un passaggio che rovescia l’impianto normativo voluto dai ministri Piantedosi e Lollobrigida, che avevano equiparato tutte le infiorescenze a stupefacenti, a prescindere dalla percentuale di principio attivo.

Pur dichiarando inammissibile per motivi procedurali il ricorso presentato da Canapa Sativa Italia e Imprenditori Canapa Italia, il tribunale ha fissato principi cardine: prevalenza del diritto europeo, proporzionalità della norma penale, richiamo alle Sezioni Unite della Cassazione del 2019, che già escludevano reati in assenza di “efficacia drogante”.

Quella di Trento non è un’eccezione isolata. Già nel giugno 2023 il Tribunale di Brescia aveva assolto un imputato ritenendo che cannabis light con THC sotto lo 0,5% «non è sostanza stupefacente».

A luglio 2023, il Tribunale di Bari prosciolse due imprenditrici accusate di detenzione e vendita, definendo il decreto governativo «irragionevole». A Roma diverse sezioni hanno sospeso processi, rimettendo la questione alla Corte costituzionale.

Sul fronte amministrativo, il TAR Lazio ha più volte annullato decreti ministeriali restrittivi, ribadendo che misure generali e assolute violano gli articoli 34 e 36 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Nel 2024 lo stesso TAR sospese l’inserimento di alcuni estratti di CBD tra gli stupefacenti.

Il quadro si è ulteriormente arricchito con l’archiviazione della maxi-inchiesta di Torino (settembre 2025), che aveva coinvolto 14 tra produttori e commercianti. Il giudice ha disposto dissequestri e nessuna imputazione, prendendo atto della liceità sostanziale dei prodotti privi di efficacia psicotropa.

Il calendario ora segna dicembre. Al Tribunale di Trento si terrà l’udienza di merito: da lì potrebbe partire un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea per chiarire se il regolamento n. 1307/2013, che definisce legale la canapa con THC fino allo 0,3%, impedisca agli Stati membri di vietarne la commercializzazione.

Parallelamente, la Corte costituzionale potrebbe essere investita della questione. A sollevare i dubbi di legittimità sarebbero i giudici ordinari, sulla scia della relazione dell’Ufficio del Massimario della Cassazione del 23 giugno 2025, che ha definito l’articolo 18 “in contrasto con i principi costituzionali” di offensività, libertà economica e determinatezza della norma penale.

Altri procedimenti sono già in corso. A Firenze pende il primo ricorso diretto contro il decreto sicurezza. In più distretti, le associazioni di categoria hanno avviato contenziosi mirati per ottenere pronunce rapide e creare un fronte di precedenti. In Emilia-Romagna, invece, un TAR ha confermato lo stop locale a vendite di derivati, segno di una giurisprudenza ancora non uniforme.

Mentre in Italia il governo difende una linea proibizionista, l’Europa procede nella direzione opposta. La Commissione Agricoltura del Parlamento europeo ha approvato a settembre un emendamento alla Politica agricola comune che legalizza l’uso dell’intera pianta di canapa, fiori inclusi, come prodotto agricolo. Una svolta che, se confermata dal plenum e dal Consiglio, obbligherà gli Stati membri ad adeguarsi. Alcuni eurodeputati spingono inoltre per una soglia unica allo 0,5% di THC e per una classificazione armonizzata a livello Ue.

Il percorso non sarà immediato: la nuova PAC entrerà in vigore nel 2028. Ma già nei prossimi mesi un regolamento OCM sulla canapa potrebbe anticipare i tempi e rendere insostenibile la posizione italiana.

Il settore, che nel 2024 valeva circa mezzo miliardo di euro annui e impiegava 30 mila addetti, resta sospeso tra ordinanze favorevoli e un decreto che continua a produrre effetti. Le associazioni stimano che la chiusura del canale infiorescenze comporterebbe perdite per 1,46 miliardi di euro, 22 mila posti di lavoro bruciati e 198 milioni di gettito fiscale in meno.

Tre gli scenari possibili. La Corte di Giustizia europea potrebbe sancire la prevalenza del diritto comunitario, costringendo l’Italia a riscrivere la normativa. La Consulta potrebbe dichiarare incostituzionale l’articolo 18, aprendo a una regolazione nazionale del settore. Oppure, più probabilmente nel breve periodo, proseguirà lo stallo: divieti ministeriali da una parte, assoluzioni e archiviazioni dall’altra, con applicazione a macchia di leopardo.

L’ordinanza di Trento segna intanto un punto di svolta. Per il governo Meloni è un nuovo stop nei tribunali; per la filiera, un segnale che la linea proibizionista rischia di non reggere al confronto con scienza, diritto e mercato europeo.

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