Ormai è impossibile sapere se siano effettivamente le ore più difficili di sempre per la leadership di Matteo Salvini, oppure se si tratti solo uno dei tanti passaggi duri che dovrà affrontare da qui ai prossimi mesi.

Di sicuro ogni giorno ha la sua pena per il ministro delle Infrastrutture, che resta fedele al proprio stile: ostenta serenità, raccontando di lunghe partite a «burraco» tra la sua alleata, la premier Giorgia Meloni, e la sua fidanzata Francesca Verdini, figlia di Denis, per descrivere gli idilliaci rapporti con l’inquilina di Palazzo Chigi. Con la presidente del Consiglio sta nascendo «un’amicizia», ha garantito Salvini. Come se le distanze politiche siderali non emergano all’ordine del giorno.

Partita russa

E mentre intorno si gioca a carte, lui sta per giocarsi la guida del partito. La strettoia è complicata, tra la lettera di dirigenti leghisti, ex parlamentari e amministratori locali, e una mozione di sfiducia alla Camera che pende sulla propria testa con le opposizioni unite come non mai, in questo caso.

Sotto esame il rapporto tra la Lega e Russia Unita, il partito di Vladimir Putin. L’esito, in entrambi i casi, appare scontato: nell’immediato Salvini uscirà indenne. Provando addirittura a rilanciarsi: «Ho ancora tanto da dare», ha detto facendo un training di auto-motivazione, pur ammettendo che non è il tipo «incollato alla poltrona». Intanto ha resistito per dieci anni, a dispetto di risultato tutt’altro che lusinghieri. L’appuntamento è stato fissato per l’autunno, quando si celebrerà il congresso.

La mozione di sfiducia a Montecitorio non presenterà sorprese, lo hanno promesso i gruppi di maggioranza. Ma c’è qualche problema. Il partito di Salvini ha dovuto diffondere una nota ufficiale per tranquillizzare gli alleati proprio in vista del voto a Montecitorio, che riempirà gli scranni dell’emiciclo. Si prevede il pienone delle grandi occasioni. «I propositi di collaborazione puramente politica del 2017 tra la Lega e Russia Unita non hanno più valore dopo l’invasione dell’Ucraina», è stato messo nero su bianco dai vertici della Lega. Aggiungendo poi: «Anche negli anni precedenti non c’erano state iniziative comuni».

Insomma, il contratto firmato dalla Lega con il partito di Vladimir Putin era poco meno di uno spettacolo circense, mica un patto politico immortalato sui social illustrato con grande soddisfazione dai vertici leghisti. Se il vicepremier ha fatto opera di prevenzione per evitare il fuoco amico in aula, non c’è stato modo di salvarsi dall’assedio dei dirigenti-dissidenti del Nord.

La voce padana

Il gruppo si è fatto portavoce dei malesseri sul territorio nei confronti della linea salviniana, che guarda al Ponte sullo Stretto e rischia di perdere la presidenza della regione Veneto. Il magma per mesi si è mosso, ora c’è stata un’esplosione.

Nella lettera inviata alla segreteria, viene rivolta una precisa domanda al leader: «Perché abbiamo smesso di dialogare con forze autonomiste e federaliste, per accordarci con chi non ha la nostra naturale repulsione nei confronti di fasci e svastiche?». Niente abboccamenti con gli estremisti, dunque. La bocciatura riguarda sia la linea politica, con un partito che guarda troppo altrove e poco alle forze produttive del nord, che la strategia delle alleanze oscillante tra un patto stretto con l’estrema destra in Europa, come i tedeschi di Afd, e una possibile intesa con l’Udc di Lorenzo Cesa.

Anche se quest’ultima operazione è stata smentita dal partito centrista. Cesa ha altre idee per la testa, ha fatto sapere in via informale con alcuni interlocutori. Un contatto, comunque, c’è stato nelle scorse settimane. E tanto è bastato a far sussultare i padani che rimpiangono il vecchio Carroccio di Umberto Bossi, che Salvini ha ammesso di non sentire da troppo tempo. Nella lista dei malpancisti ci sono nomi come l’ex segretario regionale lombardo, Paolo Grimoldi, spina nel fianco di Salvini nelle ultime settimane, gli ex deputati Daniele Belotti e Cristina Invernizzi e un drappello di dirigenti locali.

A preoccupare è poi la ribellione di alcuni sindaci in carica, la spina dorsale della classe dirigente leghista, come i primi cittadini di Rovato e Travagliato (Brescia), Tiziano Belotti e Renato Pasinetti. Spicca in questo caso il nome di Magda Beretta, sindaco di Senago (Milano), moglie di Fabrizio Ricca, assessore alla regione Piemonte, figura molto vicina al capogruppo alla Camera, Riccardo Molinari, uno dei dirigenti in pista come possibili eredi di Salvini.

Riecheggia il perentorio “no” dei territori alla candidatura da superstar di Roberto Vannacci alle Europee sotto le insegne salviniane. Il generale non viene espressamente citato. Ma un passaggio della lettera dei dissidenti non sfugge: «Se le indiscrezioni sulla candidatura nelle nostre liste di personaggi con forte marcatura nazionalista, totalmente estranei al nostro movimento, fossero veritiere, renderebbero ancor più difficile il perseguimento degli obiettivi storici del partito».

Un monito che arriva proprio mentre Salvini ammette: «Vannacci? Ci stiamo ragionando». Pronto a giocarsi la partita. Non a burraco, ma a colpi di sfide agli avversari interni.

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