«Il rispetto per le donne nasce in famiglia» diceva Ignazio La Russa, appena un mese fa, intervenendo in una trasmissione televisiva su La7. E chiosava con enfasi sulla necessità di «tirare un ceffone» a un figlio che metta in atto comportamenti sbagliati.

È fin troppo facile notare come il presidente del Senato, ora che il figlio accusato di «mancare di rispetto» è il suo, ora che il diciannovenne Leonardo Apache è accusato da una coetanea di aver abusato di lei mentre era in stato di incoscienza, sia passato rapidamente dalla reprimenda all’assoluzione preventiva.

In fondo, il motto che Leo Longanesi pensava dovesse essere inscritto sulla bandiera italiana, «ho famiglia», vale anche per casi come questo, in cui si rivela l’inveterata abitudine a far prevalere gli interessi privati sulla ricerca del giusto e la difesa del bene comune. E chi può intrepretare questo abito amorale meglio di Ignazio La Russa, appassionato difensore dell’italianità?

Oggi il presidente del Senato si dice sicuro, dopo aver «interrogato» a lungo il figlio, che non abbia commesso «nulla di penalmente rilevante». E insinua dubbi sulla credibilità di una denuncia presentata dopo quaranta giorni, da parte di una ragazza che «aveva consumato cocaina». Il senso del messaggio è chiaro: l’accusato non avrebbe costretto la ragazza a fare nulla che lei non volesse. E se lei non era in sé è colpa delle sostanze che ha assunto per propria decisione. Quanto al tempo trascorso, sarebbe indicazione di scarsa attendibilità della denuncia.

Chiunque abbia una conoscenza anche non approfondita dei meccanismi della violenza contro le donne, delle conseguenze su chi la subisce, dei dispositivi di occultamento e normalizzazione che la legittimano, delle forme di colpevolizzazione che le vittime stesse tendono a introiettare, sa che le frasi di La Russa non sono nient’altro che un’espressione della cultura che produce e riproduce il fenomeno, ostacolandone l’emersione.

Ma questa cultura trapela, in modo meno ovvio, anche dalle frasi pronunciate nell’intervista televisiva di un mese fa, dove troviamo una matrice della distorsione che circonda la lettura della violenza. Mi riferisco all’insistenza sul ruolo della famiglia, sia come agenzia educativa, sia come luogo deputato a sanzionare le trasgressioni.

Che la famiglia possa essere un luogo di apprendimento della violenza, così come – al contrario – di relazioni paritarie e rispettose, non è in discussione.

Tuttavia, attribuire alle famiglie, anziché ad agenzie di socializzazione come la scuola, il compito di intervenire sugli atteggiamenti e i comportamenti di bambini e adolescenti, rappresenta una forma di depoliticizzazione della violenza, che viene così ricondotta alla dimensione privata.  

È invece proprio attraverso l’intervento pubblico, che muove primariamente dall’ambito educativo, che si può incidere sui meccanismi di giustificazione e di riproduzione del fenomeno.

Su quei pregiudizi, a cui anche La Russa ha dato voce, che ancora addossano alle donne la responsabilità della violenza subita, distorcendo la nozione di consenso, o ignorando che il consenso valido è quella manifestazione di libera volontà non condizionata né impedita dalle circostanze.

Il presidente del Senato non è un cittadino qualunque, è la seconda carica dello Stato. Perciò non basta chiedergli maggiore severità verso il proprio figlio. Dal suo ruolo dovremmo aspettarci impegno affinché siano le istituzioni, non i «ceffoni» in famiglia, a combattere la cultura dello stupro. 

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