Dietro alle macerie del casolare distrutto dall’esplosione provocata dai fratelli Ramponi e in cui sono morti tre carabinieri, si vede un lungo campanile moderno. È quello della chiesa della Madonna di Lourdes, costruita alla fine degli anni Cinquanta su ciò che restava di una chiesetta del Quattrocento. Esattamente come negli stessi anni è successo in molti paesi della pianura veneta, diventati comuni dall’unione di agglomerati di case e casolari, circondati da campi e stalle e attraversati da strade di campagna con nomi di santi, in cui il traffico è soprattutto quello dei camion.

Castel d’Azzano, 12mila abitanti e diviso solo per la geografia amministrativa dal comune vicino di Vigasio, è il paese a dieci chilometri dalla ricca Verona dove è maturato, si è aggravato e infine si è dispiegato il dramma dei Ramponi: tre fratelli sulla sessantina – Dino, Franco e Maria Luisa – nati negli anni del miracolo economico e finiti nel buco nero degli espropri.

Come per tante famiglie venete, la loro ricchezza familiare era tutta nei campi: agricoli ma anche utilizzati per allevamento, con casolare annesso. Secondo quanto emerso dopo la tragedia, infatti, i Ramponi avevano ereditato un’azienda agricola che nel paese era considerata storica e che nel 2014 avevano ipotecato per ottenere un mutuo. 

Così si è aperta la voragine economica: mutuo non saldato, liti tra fratelli (uno dei quali avrebbe sottoscritto la richiesta di mutuo, all’oscuro degli altri e falsificando le loro firme), pignoramenti su immobili e terreni per far fronte ai debiti e infine l’esecuzione giudiziaria. Ovvero l’esproprio dei beni per la vendita all’asta e l’ordine di sfratto che i militari cercavano di eseguire quando è avvenuta l’esplosione.

I fallimenti

L’atto estremo dei fratelli Ramponi non ha nulla di ordinario, ma è maturato in un contesto sociale che nel Veneto delle ricche province sta covando silenziosamente ormai almeno dal 2008, anno della grande crisi finanziaria che ha colpito soprattutto il settore agricolo e agroalimentare e con una ricaduta durissima con il Covid.

Secondo la Confederazione italiana agricoltori del Veneto, dal 2008 al 2018 sono state più di 36mila le aziende agricole che hanno chiuso, con una riduzione in particolare tra quelle più piccole a conduzione famigliare e una progressiva concentrazione in aziende di dimensioni maggiori. In percentuale, hanno chiuso tra il 10 e il 15 per cento delle piccole aziende, con un aumento delle procedure esecutive e dunque di famiglie finite sotto sfratto e costrette a vendere terreni.

Secondo le statistiche delle liquidazioni giudiziari e dei fallimenti dichiarati dalla regione Veneto, il totale dei fallimenti e liquidazioni giudiziali in provincia di Verona sono aumentate da 62 a 96 dal 2023 al 2024, con un aumento del 55 per cento e il più alto numero di procedure rispetto alle altre sei province venete. 

Verona, del resto, è nota in particolare per i settori della frutticoltura e dei seminativi, ma negli anni il settore è stato funestato dal cambiamento climatico e in particolare la crisi idrica e dal rincaro energetico, oltre che dall’aumento del costo delle materie prime. 

I numeri degli sfratti

È in questo contesto che il paesaggio rurale intorno ai grandi centri urbani si sta progressivamente imbarbarendo, con capannoni vuoti e campi che rimangono incolti. Un dato parallelo è quello degli sfratti: nel 2024, Verona è stata la provincia con il più alto numero di esecuzioni con 645 misure eseguite.

Il risultato è una forbice sociale sempre più ampia, ben mascherata dietro il dato di un Pil annuo pro capite in regione di 31.730 mila euro, dove Verona vanta un reddito medio di 25.792 euro.

Eppure, anche nel ricco Veneto il 10 per cento della popolazione vive in povertà relativa (contro il 14,9 per cento italiano), mentre la povertà assoluta tocca l’8 per cento (il 9,8 per cento a livello nazionale). In tutto, quasi un milione di persone.

In questo Veneto profondo, vicino – o meglio lontano – pochi chilometri dalle città, è in atto la crisi silenziosa che sta cambiando il volto della regione che è ancora locomotiva italiana ma porta al suo interno tutte le contraddizioni di uno sviluppo diseguale.

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