Le città di pianura di Francesco Sossai è uno dei due film italiani nella sezione Un Certain Regard del festival. Cinematograficamente, è un UFO. Ma è più calzante il termine “unicorno”. È una creatura cinematografica di fantasia che non appartiene a nessun genere o specie censita. Racconta per immagini l’imbarbarimento di un paesaggio. Quello veneto. Annota istantanee e unisce i puntini, in un viaggio a tre che da lontano richiama Il sorpasso
Ci sono i filmetti (in soprannumero, a Cannes 2025), i film rispettabili e i film “da cotta”. La cotta è di norma il prodotto di patologie individuali. Ma se la sbandata diventa epidemica? «Le città di pianura è il film più bello del Festival» sta diventando qui un rumore di fondo. Persistente. Perfino inquietante. Non è più un trip da eremiti, rasenta il “caso”.
Le città di pianura di Francesco Sossai è uno dei due film italiani a Un Certain Regard. Cinematograficamente, è un UFO. Ma è più calzante il termine “unicorno”. È una creatura cinematografica di fantasia che non appartiene a nessun genere o specie censita. Sossai ha trentasei anni, è di Sedico, provincia di Belluno. Racconta per immagini l’imbarbarimento di un paesaggio. Il suo. Quello veneto. Annota istantanee e unisce i puntini, in un viaggio a tre – dialetto e colori acidi – che da lontano richiama Il sorpasso. Ogni dettaglio è organico all’altro. Tutto “si tiene”.
Roberto Citran che col suo elicottero scende come il Messia tra gli operai della sua redditizia aziendina, con l’insolente bonarietà del padre-padrone, è solo l’avvio. Ognuno al suo posto, nell’ordinato Nord Est. Ma il road movie ad alto tasso alcolico che vede protagonisti Carlobianchi e Doriano è un camera-car attraverso il “cimitero ricchissimo” che si è ingoiato una terra e la sua civiltà umana. Sossai dà forma allo sbigottimento di chi – come me, nativa – ha visto la metastasi della “grande bruttezza”, estetica e culturale, di quelle campagne. Ma è una metafora mozzafiato del nostro intero Occidente.
Carlobianchi (si scrive tutto attaccato, l’attore indigeno di teatro è Sergio Romano) e Doriano (Pierpaolo Capovilla, un non-attore) hanno la rassegnazione burlona di quella lost generation nata negli anni Settanta della floridezza e rottamata dopo la crisi del 2008, espulsa dal processo di produzione e “rimasta al bar”. L’estetica è anche etica, sempre. E quando di notte imbarcano in macchina Giulio (Filippo Scotti), studente di Architettura, un po’ sono guide e un po’ allievi. È il mondo dell’autostrada “fantasma”, l’orgoglio del governatore Zaia, dove non passa nessuno per i pedaggi troppo cari. È il mondo dell’”edilizia dei geometri”, il budello asfissiante che ha inumato gli indigeni in un tetro isolamento col mutuo. Le mode importate a dazio zero – il cocktail di gamberetti, l’addio al nubilato – non calano solo il sipario sulla Trattoria della Meri (lumache e polenta), cancellano una identità.
Da veneta, sono andata in visita al Memoriale Brion di Carlo Scarpa, opera sublime che da quarant’anni quasi sta a dieci minuti dalla mia città natale, dopo che Dune ne aveva fatto un suo set. «Ma come fate a vivere qua e a non sapere niente di dove vivete?», chiede Giulio, che è napoletano, ai nuovi amici. Bella domanda. È che la cappa del brutto ci ha anestetizzato.
Le città di pianura è una lente. «Mi piace la definizione pasoliniana di “scandalosa forza rivoluzionaria del passato” – dice il regista, incredulo per i consensi – andare in cerca di tracce di umanità, di visioni e intuizioni del passato che possano far esplodere nuove idee per il futuro». Esce in sala, tranquilli. Con Lucky Red.
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