Il cosiddetto “campo dei feti” nel cimitero Flaminio di Roma ha attirato da fine settembre le attenzioni mediatiche. Un cimitero nella capitale ha seppellito i resti dei feti riportando sulle loro croci i nomi delle donne che li avevano abortiti. Una chiara violazione della privacy che ha scatenato le proteste da parte degli attivisti che lottano affinché il diritto all’aborto sia praticato senza ostacoli e umiliazioni. A far nascere questa lugubre pratica è stata la legge secondo cui il feto abortito tra la ventesima e 28esima settimana deve essere sepolto dai familiari oppure secondo le direttive della Asl. Il comune di Roma guidato dalla sindaca Virginia Raggi ha recentemente provato a risolvere il problema proponendo di inserire al posto dei nomi delle donne un codice alfanumerico così da eliminare il problema della violazione della privacy. Una proposta che diversi movimenti in lotta per l’emancipazione femminile hanno giudicato non sufficiente.

«Non è solo un problema di privacy»

«Anche col codice alfanumerico le donne si sentono sepolte sotto quelle croci e vivono una profonda ingiustizia che gli impone una sola modalità di elaborazione della loro personale vicenda, quando invece ognuna deve poter scegliere come elaborarla»: spiega Michela Cicculli assessora alle politiche di genere del Municipio VIII e attivista del collettivo femminista Una volta per tutte. Secondo Cicculli, «il comune dovrebbe anche chiarire come mai esiste  “un campo specifico a cui sono destinati i prodotti del concepimento o i feti che non hanno avuto onoranze funebri perché sepolti su semplice richiesta dell’Asl di competenza” quando il regolamento comunale non lo prevede». L’attivista ha promosso un appello insieme a Marta Loi, la prima donna a denunciare il “campo dei feti”, e a Non una di Meno, per chiedere alla sindaca di risolvere il problema alla radice.  

«La laicità al primo posto»

«La soluzione che va implementate – spiega Cicculli –  è una soluzione che garantisca la laicità e l'autodeterminazione di scelta della donna in primis. Bisogna autodeterminare il diritto a vivere questo evento come una scelta da decidere individualmente, senza dover rendere conto pubblicamente del suo vissuto e dover rispondere di una scelta come di una vergogna». Per fare questo  «è necessario rivedere in quest'ottica anche la normativa nazionale sulla destinazione dei prodotti abortivi fra le ventesima e 28esima settimana, per evitare che soggetti terzi abbiano accesso a dati e materiale sensibile e dare centralità alle scelte e al consenso delle donne». Cicculli propone come soluzione quella stabilita dal regolamento cimiteriale di Milano «dove i feti sono cremati e conferiti in un cinerario e dove ogni donna può indicare un'altra scelta, senza dover subire imposizioni da niente e da nessuno». 

«Condannate ad abortire con dolore»

Quello del campo dei feti non è solo un problema amministrativo. Secondo l’assessora Cicculli,  «si fatica a centrare il punto perché c'è un sottotesto culturale complesso che rappresenta il vero problema». L’attivista ricorda come nonostante la presenza che garantisce la possibilità all’aborto, questo diritto «incontra ostacoli materiali e se esercitato avviene solo attraverso un percorso che ribadisca sofferenza fisica e che preveda una narrazione che riporti sempre al senso di colpa, alla vergogna e alla colpevolizzazione». La sentenza finale per le donne italiane sembra essere: «Abortirai con dolore quando, invece, lo spirito della 194 mirava all'autodeterminazione dall'inizio alla fine dell'aborto».  Per questo l’invito dell’assessora è «di aprire un dialogo vero con le istanze politiche che vengono da fuori i palazzi e abbandonare l'ottica in cui le donne sono oggetti di priorità d'altri, invece che soggetti titolari di diritti». L’obiettivo è quello di andare oltre proposte che «si concentrano solo sulla tutela della privacy».

Il caso Civitavecchia

Se il caso di Roma agita in questo momento il dibattito sul diritto all’aborto, a settanta chilometri dalla capita un gruppo di attiviste è già riuscito a fermare una pratica simile a quella del “cimitero dei feti”. Le attiviste del gruppo “Donne in difesa della 194” di Civitavecchia hanno infatti bloccato il protocollo tra la Asl locale e l’associazione “difendere la vita con maria” che prevedeva la consegna di tutti i residui abortivi, a prescindere dalla settimana di gestazione in cui fosse avvenuto l'aborto, all'associazione in questione che avrebbe provveduto alla inumazione in fosse singole, con cippi funerari, in una area cimiteriale che il comune di Civitavecchia nel frattempo aveva concesso presso il cimitero comunale. Grazie alla loro battaglia, le attiviste hanno fermato un provvedimento che avrebbe violato la legge della polizia mortuaria in materia di sepoltura dei feti. Ma anche in questo caso la politica non sembra avere gradito. «Mentre la Asl rm 4 ha ritirato il protocollo d’intesa, rimane ancora in piedi la determina del Comune»: spiega l’attivista Valentina di Gennaro a cui l’assessore in questione «non ha mai risposto».

Dopo l’iniziativa, le donne raccontano di essere state oggetto di alcuni comunicati stampa da parte del movimento per la vita e di diversi esponenti di Fratelli d’Italia, nei quali sono state «apostrofate come aggressive, chiassose, abortiste, senza compassione». L’intento della protesta era però un altro come spiega di Gennaro: «Abbiamo più volte sostenuto che noi solidarizziamo e accogliamo anche le donne che decidono di inumare i residui dei propri aborti, perché la legge già lo permette, chiediamo però che si faccia appunto come prevede la normativa, in forma privata».

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