Francesco Clementi, professore di diritto pubblico comparato all’università di Perugia, cosa ha provocato questa crisi?
Il governo è debole perché è formato da partiti deboli che non hanno scelto ancora in quale “campo da gioco” deve essere strutturata la democrazia italiana, e dunque loro stessi: se per una forma di tipo proporzionale pura, che incentiva libere alleanze tra partiti in una sorta di grande valzer dove tutti possono ballare con tutti, senza imbarazzi, in cui gli elettori però sono solo degli spettatori; oppure per una di tipo maggioritario, ad alleanze pre-definite, nella quale però gli elettori sono i veri decisori, dividendo, con il loro voto, il campo in schieramenti difficilmente scomponibili. Oggi lo stallo è generato dal fatto che agli eletti piacciono le mani libere, mentre agli elettori piace che il loro voto abbia un senso vero. A maggior ragione di fronte a coalizioni post elettorali che non durano neanche lo spazio di un mattino.

È una crisi strutturale?
Sì e ha radici profonde, ma che esplode nel 2013, perché da allora il voto consegna risultati che non offrono una maggioranza chiara dentro un bicameralismo paritario che richiede, peraltro, una maggioranza omogenea in entrambe le due camere. È tanto, oggi forse troppo.

Nella debolezza dei partiti spicca la figura del presidente della Repubblica, è una distorsione costituzionale?
I costituenti hanno immaginato il presidente della Repubblica come una sorta di motore di riserva, nel caso in cui quello principale – il dialogo parlamentare tra i partiti – si inceppa. La domanda è: fino a quando possiamo chiedere al presidente di essere garante di un paese la cui classe dirigente sembra incapace di cogliere la drammaticità di questa fase storica? Sergio Mattarella si sta caricando sulle spalle un compito molto più gravoso di quello che l’ordinamento normalmente affida al Quirinale. Mi chiedo fino a quando potremmo permetterci una forma di governo parlamentare a tendenza presidenziale.

La crisi può finire con il voto o con un rimpasto. Sono entrambi percorribili?
Il problema non è tecnico, perché gli elementi di base ci sono tutti. Il problema è politico: votare significa che i partiti attuali non sono in grado di trovare una soluzione. È una resa grave e irresponsabile della politica alla sua debolezza. Un messaggio opposto e contrario a quei tanti “costruttori” di dialogo e solidarietà che, in questo anno di pandemia, hanno anteposto con generosità e gesti di altruismo, anche a rischio della propria vita, gli altri a sé stessi.

I passaggi di una crisi pilotata e di un nuovo governo sono ancora incerti. Ogni metodo è legittimo?
La Costituzione non norma in modo dettagliato come si arriva a una crisi e alla formazione di un governo. Esiste però una prassi costituzionale: dei 66 governi che fino a ora si sono succeduti, 64 sono caduti per una crisi extraparlamentare, che significa uno smembramento della maggioranza tale da giustificare le dimissioni del premier. Solo i due governi Prodi sono caduti per una crisi parlamentare, cioè con voto di sfiducia del parlamento. Al netto di questo, ogni via che si sta tentando in questi giorni è legittima, perché la Costituzione lascia liberi i partiti, nel dialogo con il presidente della Repubblica, di scegliere quale sia il percorso, sia per una crisi di governo pilotata che per la formazione di un nuovo esecutivo.

Nella crisi attuale, il parlamento sembra essere marginale. Come si spiega?
Da decenni il ruolo dei parlamenti è recessivo rispetto a quello degli esecutivi. I parlamenti che lo hanno capito si sono rafforzati adottando nuovi strumenti. I parlamenti che, come il nostro, non sono riusciti a realizzare riforme costituzionali, cedono il passo.

Non c’entra solo la pandemia, allora.
La pandemia ha evidenziato antichi problemi, moltiplicandoli. Rifiutando ogni forma di cambiamento, il parlamento ha scelto la strada della conservazione, come, da ultimo, la rinuncia ad adottare, durante i giorni drammatici del Covid, il voto a distanza dei parlamentari seguendo l’esperienza di altre democrazie occidentali o del parlamento Ue. E un sistema incapace di rinnovarsi, finisce “scavalcato” e dimidiato, come per il tentativo di parlamentarizzare i dpcm.

Il parlamento potrebbe tornare centrale, se Conte deciderà di andare in aula per chiedere la fiducia.
In questa crisi il parlamento ha due funzioni. La prima è quella di essere il luogo in cui i conflitti politici dovrebbero emergere ma, siccome tutto il dibattito è già avvenuto fuori dall’aula, ora può essere al massimo il luogo della teatralizzazione dello scontro. La seconda è quella di essere il motore di una maggioranza alternativa.

Con un rischio, però: che una mossa del genere appaia solo come un tentativo disperato di evitare il voto anticipato.

Sarebbe legittimo, però.
Certo, il parlamento ha la piena legittimità di esprimere un governo alternativo rispetto all’attuale. Il dilemma non è costituzionale infatti ma tutto politico: è possibile concepire una maggioranza alternativa?

Se sì, su quali solide basi programmatiche? E per quanto tempo? Forse l’unico tema che divide l’emiciclo in modo simmetrico è l’europeismo, ma è incerto che questo possa essere un collante abbastanza forte da tenere insieme un nuovo governo per altri due anni.

© Riproduzione riservata