L’ultimo decreto legge, che ha segnato l’ennesimo giro di vite sull’uso della certificazione verde Covid, è stato completato con un importante tassello: il Dpcm che individua i servizi necessari ad assicurare il «soddisfacimento di esigenze essenziali e primarie della persona», ove si potrà accedere senza la certificazione, quindi liberamente.

Tutti gli esercizi non esentati dal Dpcm vanno così ad aggiungersi a quelli dove è già previsto possano entrare solo i possessori di “green pass” base (tra gli altri, uffici postali o bancari, locali di parrucchieri, barbieri, estetisti e centri di cura alla persona).

Il nuovo Dpcm

La sintesi della portata del Dpcm è nelle premesse, dove si afferma che, «nell’attuale contesto emergenziale», le uniche attività non sottoposte all’obbligo di “green pass” sono «solamente quelle di carattere alimentare e prima necessità, sanitario, veterinario, di giustizia e di sicurezza personale».

La definizione delle attività dove non serve la certificazione Covid è fatta attraverso l’indicazione della categoria di appartenenza, in un elenco allegato al Dpcm.

Anche chi non sia vaccinato, guarito o non abbia un tampone negativo potrà accedere, ad esempio, a negozi che vendono generi alimentari o combustibile per il riscaldamento, farmacie, parafarmacie, studi medici e veterinari, laboratori di analisi, negozi di ottica o per animali.

Pertanto, occorrerà il “green pass” base per attività come librerie, tabaccai e altre che restavano aperte anche durante il lockdown della primavera 2020 e nelle zone rosse, secondo il sistema a colori. Inoltre, senza certificazione verde si potrà entrare negli uffici delle forze di polizia per la presentazione di una denuncia, ma non per altre pratiche, come il rinnovo del passaporto.

Le ragioni del Dpcm

Le perplessità sono molte, anche perché non è dato sapere quale sia la “ratio” delle decisioni. I provvedimenti normativi con cui si sta gestendo la pandemia non sono accompagnati da documenti e relazioni che consentano di comprenderne motivazioni, fattibilità e impatti attesi.

Sarebbe invece necessario spiegare per quale ragione sanitaria – dato il contesto pandemico – si reputi che in libreria o in tabaccheria si possa accedere solo da vaccinati, guariti o con tampone negativo, altrimenti si compromette la salute pubblica, e perché invece questa esigenza non sussista, ad esempio, in un negozio di animali. E qual è il motivo per cui gli esercizi commerciali citati sono considerati meno essenziali e più a rischio rispetto ad altri.

Insomma, servirebbe chiarire il meccanismo di prevenzione del contagio in base a cui si vieta l’acquisto di certi beni, reputati non “essenziali”, a chi non abbia la certificazione verde, imponendo così una selezione che pare dettata da motivi diversi da quelli sanitari; o perché nuocerebbe alla salute collettiva entrare in un ufficio pubblico per svolgere alcune pratiche, restando invece escluse le altre.

Senza solide motivazioni a sostegno di certe scelte, il Dpcm rischia di essere inficiato sotto il profilo della ragionevolezza. Peraltro, l’onere del tampone o della vaccinazione per accedere in posti fondamentali per la vita delle persone – si pensi, ad esempio, ai centri per l’impiego o alle poste per riscuotere la pensione – ma non reputati “essenziali” dal Dpcm, rischia di svantaggiare quelle più fragili.

Se le motivazioni non sono di tipo sanitario, bensì di altra natura, vanno in ogni caso rese note per far comprendere il criterio a fondamento delle scelte. In passato, a fronte della decisione di adottare il “green pass”, nella versione base e super, si è affermato che fosse necessario indurre i non vaccinati a ricorrere al vaccino.

Se questa è la causa della stretta operata con l’ultimo decreto, servirebbe comunque ex ante esplicitarne con chiarezza gli obiettivi e gli effetti attesi, rendendo conto ex post dei risultati ottenuti a seguito delle scelte fatte.

Altrimenti, rischia di passare il messaggio che la finalità perseguita dal governo sia solo quella di rendere difficile la vita ai non vaccinati – come dichiarato dal presidente Emmanuel Macron per certe politiche restrittive realizzate in Francia – e che l’intento sotteso sia di tipo punitivo o ritorsivo.

Pure nel corso di una pandemia, a differenza di quanto qualcuno pensa da due anni, non vale tutto. Reputare che, in un’emergenza sanitaria, la compressione di libertà e diritti indirizzata a un “buon” fine – quello di indurre le persone a vaccinarsi – non necessiti di altra spiegazione, è un’arbitrarietà che può giungere a legittimare qualunque misura. Il virus poi passa, ma il metodo resta.

Serve trasparenza

Dunque, il governo può decidere ciò che ritiene più opportuno, ma in conformità ai principi di proporzionalità, necessarietà e adeguatezza, che vanno sempre rispettati quando si pongono limiti alla libertà individuale, sia pure quella di un No-vax; e tenendo come faro il principio di trasparenza, per consentire di verificare la conformità delle decisioni a tali principi.

Alla richiesta di trasparenza non si assolve solo mediante conferenze stampa, con domande spesso non sufficientemente mirate e risposte forse poco esaustive. Come detto, servono atti, allegati ai provvedimenti normativi, in grado di spiegare motivazioni e impatti attesi in relazione agli obiettivi perseguiti.

A proposito di trasparenza, perché i verbali del Comitato tecnico scientifico (Cts) vengono pubblicati 45 giorni dopo le relative riunioni? Qual è il motivo per cui serve attendere tanto tempo per conoscere valutazioni che sarebbe, invece, necessario rendere note quanto prima, affinché le persone possano comprendere la “ratio” delle decisioni?

Peraltro 45 giorni di attesa, con decreti legge emanati a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro come avvenuto per gli ultimi cinque in poche settimane, inficia la funzione della pubblicazione.

Qualcuno parla di scelta politica dettata da “prudenza”. Il concetto di prudenza era spiegato nel ricorso dell’Avvocatura dello stato, per conto della presidenza del Consiglio – governo di Giuseppe Conte – contro l’accesso ai verbali del Comitato, nel luglio 2020, quando tali verbali non erano nemmeno sistematicamente pubblicati dopo 45 giorni, come oggi.

L’Avvocatura motivava la necessità «quanto meno del differimento dell’accesso ai verbali» in considerazione dell’«allarme sociale» e delle «problematiche, in alcuni casi anche di ordine pubblico», determinate da talune decisioni, «a seguito della diffusione di notizie in ordine alle valutazioni effettuate dal Comitato». Nel ricorso si evidenziava il «pregiudizio» che sarebbe potuto derivare dalla «disclosure» dei verbali del Cts in tale fase di emergenza.

Dopo due anni di pandemia, reputare che il paese non sia ancora pronto per la piena trasparenza è frutto di quell’atteggiamento paternalistico che connota chi detiene pro tempore il potere. Non ci si stupisca, poi, se l’Italia resta incapace di quel cambio di passo che contraddistingue gli stati ove la responsabilità dei singoli viene valorizzata, in ogni senso.

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