Che qualcosa di buono è successo lo si capisce dall’esplosione di nervosismo delle destre. Dal fatto che Forza Italia e Giuseppe Conte, per descrivere l’alleanza stretta martedì fra Enrico Letta, Carlo Calenda e Emma Bonino, usino la stessa parola «accozzaglia». Quella che usò, e non gli portò bene, Renzi contro lo schieramento del no al suo referendum costituzionale, nel 2016. Quanto a Renzi, anche lui spara contro l’accordone. Perché Giorgia Meloni resta la favorita al voto del 25 settembre, ma martedì il centrosinistra ha deciso di darsi la possibilità di fermarla.

In realtà a un passo dalla rottura Letta e Calenda ci sono andati davvero. Pubblicamente, a colpi di avvisi e ultimatum, ma anche riservatamente. martedì mattina, poco prima dell’incontro delle due delegazioni alla sala Berlinguer della Camera, Marco Meloni, braccio destro del segretario Pd, si è visto spuntare nella mail una bozza di accordo. Letta chiama Calenda, la tostissima Debora Serracchiani al cellulare di Riccardo Magi, sherpa dell’altro lato: «Un testo già scritto è una provocazione».

Dall’altra parte si trasecola: «È solo una bozza di lavoro». Intanto su Rainews Emma Bonino, cocciuta tessitrice dell’intesa, dice: «Mancare l’accordo non sarebbe credibile». Quando tutti si siedono al tavolo (Calenda, Richetti, Della Vedova e Magi da una parte, Letta, Meloni, Serracchiani e Malpezzi dall’altra), il segretario Pd fa una premessa: «Parliamoci chiaro: se c’è volontà politica le soluzioni si costruiscono».

Finite le polemiche

La soluzione si trova. Miracolo, davanti alla stampa Calenda sembra un altro: «Da mercoledì non ci sono polemiche e non c’è più prepartita», promette, scherza persino sul ministro del Lavoro, suo bersaglio mobile: «Orlando ha sempre ragione». Poi serio: «Da mercoledì c’è la partita, porteremo a casa la vittoria».

Eccesso di ottimismo, ma il pericolo della frantumazione massima è scampato. Le intese precedenti erano quasi andate in vacca per fake news come la corsa di Di Maio a Modena e di Fico a Napoli. Veleni. Come la possibilità che Più Europa rompesse con Azione: «Falso, la federazione avrebbe retto comunque. Certo sarebbe stato impressionante passare una campagna elettorale ad attaccarci fra noi e il Pd e far fare a Giorgia Meloni la parte della statista che pensa al paese», spiega Magi.

«Le prossime elezioni sono una scelta di campo tra un’Italia tra i grandi paesi europei e un’Italia alleata con Orbán e Putin», dice il documento. I firmatari condividono l’agenda Draghi ma con una forte venatura sociale. Dicono sì ai rigassificatori a cui tiene Calenda ma «nel quadro di una strategia nazionale di transizione ecologica». Salario minimo, taglio del cuneo fiscale ma a vantaggio dei lavoratori, Pnrr, fisco «progressivo», responsabilità ma non «ritorno all’austerità», «non aumentare il carico fiscale», correzione del reddito di cittadinanza e del bonus 110 per cento; diritti civili.

La questione dei collegi uninominali segue una soluzione indicata dai rossoverdi, da subito disponibili a candidarsi nelle loro liste proporzionali per evitare nomi «divisivi». Negli uninominali non saranno candidati segretari, né recenti fuoriusciti da M5s e Fi. Dunque no Bonelli, no Fratoianni ma anche no Gelmini e Carfagna.

La divisione sarà 70 a 30 «scomputando» i posti degli alleati. Due i «front runner», Letta per il Pd e Calenda per i liberal, li prevede la legge. I rossoverdi prendono atto di un «patto legittimo» ma che non li impegna: combatteranno contro gli inceneritori, certi di superare lo sbarramento. Su Angelo Bonelli è in corso il corteggiamento di Conte. Momenti cupi invece a casa Di Maio&Tabacci. Per loro il tre per cento è un miraggio, Letta offre un diritto di tribuna ma «ai leader».

Impazzisce di rabbia Italia viva, a cui pure Calenda e Letta ripetono l’invito nell’alleanza. Matteo Renzi annuncia la corsa solitaria, dai suoi parte il bombardamento social contro Calenda. Fra i renziani c’è chi giura che il Pd li invita in lista («falso», dal Nazareno), chi sbotta «ci hanno buttato fuori», chi spacconeggia come sempre: «Così lo sbarramento lo superiamo di certo».

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