Giacca lampone lei, taglio maschile, sotto ha una camicia fantasia, al polso il braccialetto giallo di Amnesty International che chiede Verità per Giulio Regeni. Giacca blu e camicia bianca lui, insolitamente classico e stavolta ineccepibile, anche senza cravatta. Stefano Bonaccini ed Elly Schlein, al primo duello tv su Sky, per un’ora intera non si attaccano mai. Giusto qualche colpo di fioretto.

Intanto perché partono entrambi un po’ impacciati, con il fiato corto e un po’ di emozione. Lui ha vinto il voto nei circoli ed è già perlomeno il segretario degli iscritti, quindi non deve essere aggressivo, e poi non certo verso una giovane donna. Tant’è che quando può rivolgerle una domanda, le chiede se alla fine se perderà gli darà una mano.

Lei sorride: «Assolutamente sì, Stefano. Senza ombra di dubbio. Abbiamo lavorato fianco a fianco in Emilia Romagna durante il Covid, pur non concordando su molte idee, e continueremo a farlo ancora nel partito». Lei si appella ai delusi del Pd, i votanti che se ne sono andati, agli astenuti, che sono la sua speranza di prevalere sul presidente dell’Emilia-Romagna al voto dei gazebo. 

L’ora del primo confronto scivola via senza affondi. Bonaccini accusa, ma il verbo è eccessivo, Schlein di insistere più sui diritti civili che su quelli sociali, lei non ci sta e lo accusa di non essere troppo incisivo sul lavoro precario. 

Cerca le differenze

Ma si fa molta fatica a vedere le differenze fra i due programmi, al netto del linguaggio concreto di lui e quello più radical di lei.  Affiora qualcosa sul tema della guerra all’Ucraina.

Entrambi per l’invio alle armi, ma lui cita Gianni Cuperlo (che spera di portare con sé al secondo turno): «Se Putin finisce la guerra, finisce la guerra. Se l’Ucraina finisce la guerra, finisce  l’Ucraina”» e aggiunge che finisce anche il sogno europeo. Schlein non si discosta dalla linea di Bonaccini e cioè del partito, sì alle armi a Kiev, ma si dichiara pacifista, «non credo che la guerra si risolva con le armi, non possiamo aspettare che cada l’ultimo fucile per chiedere all’Europa uno sforzo per una conferenza di pace». 

Entrambi si appellano al voto nei gazebo, e entrambi puntano almeno a un milione; entrambi chiedono il rinnovamento del partito, fuori dalla tv se ne sono dette di peggio, qui sorvegliano i toni, si sospetta un’intesa per non dare l’immagine di due rissosi che travolgerebbe l’ultima speranza di partecipazione, o forse invece la accenderebbe: «I gruppi dirigenti fin qui hanno conosciuto solo sconfitte, invece i due terzi dei sindaci progressisti hanno vinto mentre il Pd perdeva le elezioni nazionali», dice Bonaccini, lei invece soffre il partito degli amministratori che lui guida e gli replica che «non basta cambiare gruppo dirigente e non ci serve una buona ordinaria amministrazione, serve una linea politica chiara, coerente». Ma non si scambiano accuse su quanti capicorrente ciascuno di fatto ha dietro di sé.

Sulle alleanze entrambi non si sbilanciano, entrambi chiedono a M5s da un lato e Renzi-Calenda dall’altro di cominciare insieme una battaglia in parlamento a partire dalla sanità pubblica salario minimo, lei aggiunge i congedi paritari e il consumo di suolo. 

Sono differenze millimetriche, almeno a parole, quelle che si indovinano più che ascoltarsi anche sul lavoro: Schlein se la prende con il governo che «non parla mai di precarietà» e con il suo Pd che «ha sbagliato con il Jobs act. Diciamo basta ai contratti a termine e vogliamo fissare un salario minimo» e ricorda l’ultimo rider morto. 

Anche Bonaccini ha la sua risposta ben preparata: «L’Italia è un Paese in cui la povertà comincia ad essere ereditaria e la ricchezza un fatto ereditario» e chiede di «tassare le multinazionali» nel paese dove producono, quanto al lavoro precario «deve essere più costoso di quello stabile». Schlein contesta, «si devono limitare i contratti a termine», ma sembra più un’incomprensione che una contestazione. Ma lei parla di «riduzione dell'orario di lavoro».

Entrambi attaccano il governo per il taglio al reddito di cittadinanza e qui lei crede di poter accusare Bonaccini di un atteggiamento troppo istituzionale su Giorgia Meloni, polemica degli ultimi giorni. «Al governo do voto quattro, su sanità, scuola, superbonus, benzina, migranti. Ma se dicessi che Meloni è incapace sfiorerei il ridicolo, dopo il voto del Lazio e della Lombardia».

Lei dice no all’autonomia differenziata del governo e non se la può prendere con Bonaccini, che la pensa alla stessa maniera, ma avvisa che il suo sostenitore Eugenio Giani, presidente della Toscana, chiede solo qualche aggiustamento. E attacca ancora sui migranti: il Pd dovrà dire no ai finanziamenti alla (sedicente) Guardia Costiera libica, fin qui per lo più si è astenuto e promettere di cancellare la Bossi-Fini (quando andrà al governo).  

Bonaccini può replicare di essere d’accordo con lei, e che da presidente della Regione sta accogliendo i migranti ed è contro «la guerra alla Ong». Una distanza più marcata sul caso Cospito. Entrambi perché lo stato gli salvi la vita, ma Bonaccini risponde un no secco alla domanda se andrebbe a trovarlo in carcere da segretario, e lei replica di difendere i colleghi – l’ex ministro Andrea Orlando in primis – che lo hanno fatto nel pieno delle loro prerogative da parlamentari.

Quando il conduttore chiede chi ciascuno vuole imbarcare in un simbolico camper del Pd, entrambi ignorano Renzi, Calenda e Conte, entrambi indicano gli altri sfidanti alle primarie. Lei chiama con sé anche una precaria, lui la senatrice Liliana Segre. Lui vorrebbe far (ri)salire a bordo anche Mario Draghi. E Walter Veltroni, il primo segretario del Pd, quello dei tre milioni alle primarie del 2007. Ma questa ultima risposta non è prevista. Del resto quello di Veltroni era un altro mondo, e soprattutto un altro Pd.

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