Sarà l’ex premier greco Alexis Tsipras, oggi in avvicinamento dalla sinistra-sinistra alla famiglia del socialismo europeo, a mandare la benedizione al congresso di Art.1, offrendo quasi un gemellaggio. «Cari compagni, care compagne», dirà il suo messaggio, «il vostro motto “Un mondo nuovo, una sinistra grande” riassume la grande sfida che abbiamo davanti a noi. Costruiremo tutte e tutti insieme questa sinistra. In Grecia, in Italia, in tutta Europa». Bellissimo colpo di scena. Ma l’assise che si apre domani a Roma (all’Auditorium Antonianum, ore 10) rischia fatalmente di fare notizia per chi c’è e chi no, come Michele di Ecce Bombo. Massimo D’Alema c’è. Matteo Renzi no.

D’Alema parlerà domenica. Il fattaccio di aver dato una mano alle aziende italiane a vendere armi alla Colombia è stato mal digerito nel partito che ha fondato. C’è ancora uno zoccolo di suoi fan, certo, ma nel gruppo dirigente circola un imbarazzo impronunciabile a voce alta. D’Alema liquida il fatto in sé come «una vicenda di cui sono vittima, è stata manipolata una mia conversazione privata, spero che chi lo ha fatto venga condannato». Ma per i suoi a non andare giù è «perché proprio la Colombia», paese retto da un governo reazionario che reprime sindacalisti e campesinos, come ricorda Amnesty international. Sul punto da Art.1 chiudono la bocca e allargano le braccia: «Se D’Alema vuole parlare a congresso, parla». D’Alema respinge la questione: «Non vedo il nesso con il congresso di Art.1: interverrò, come ho sempre fatto. Ho ricevuto un caldo invito a parlare».

Nessun invito

Matteo Renzi, dicevamo, invece non ci sarà. Non è stato invitato. E verso Italia viva non è partito nessun invito ufficiale. Perché, è la motivazione, non si è ancora capito se farà parte del «campo progressista». A occhio lì hanno preferenza di no: perché Renzi ormai si butta a destra, alle prossime amministrative di Genova sostiene il candidato di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Non sta in coalizione neanche a La Spezia. Forse neanche a Palermo e Messina.

A rappresentare il centro sarà Carlo Calenda. Fra gli altri ospiti, naturalmente il segretario del Pd Enrico Letta, il suo vice Peppe Provenzano, il leader di Sinistra italiana Nicola Fratoianni, i Verdi, Demos, con cui è in corso una convergenza. Parlerà il presidente M5s Giuseppe Conte ma anche Luigi Di Maio, l’altro leader grillino, invitato, giurano, «in quanto ministro, come Andrea Orlando». E poi il segretario Cgil Landini e quello Uil PierPaolo Bombardieri e il presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo che ha nella “ditta” un plotoncino di difensori. I sindaci di Roma, Roberto Gualtieri, di Napoli, Gaetano Manfredi, di Bologna, Matteo Lepore. Il parterre in sostanza è una squadra del cuore, il centrosinistra dei loro sogni, che guarda a sinistra e ai grillini.

Congresso obbligato dalla scadenza statutaria, sulla carta non offre brividi: dei 14mila iscritti ha votato la metà, la mozione unica a prima firma Roberto Speranza ha preso il 91 per cento dei voti. Speranza candidato unico alla segreteria. Per evitare l’effetto Bulgaria avevano provato a dare una manina alla mozione alternativa del giovane David Tozzo, uno dei rari «contrari al rapporto esclusivo e di attesa del Pd» e favorevole «all’uscita dal governo Draghi». Ma niente da fare, accusa lui, «le condizioni di agibilità si sono dimostrate impervie. «Non aveva un minimo di firme, non è stato possibile neanche inventarsi una deroga», dicono gli altri.

Giochi fatti

I giochi interni dunque sono già fatti. Ma non è il punto. Il vero punto politico della due giorni è il destino della “ditta”, dopo tre anni di segreteria di Speranza, che però da due sta blindato nella trincea del ministero della Salute in èra Covid. Persa la scommessa del nuovo partito della sinistra, oggi i padri nobili fanno un passo indietro: Pier Luigi Bersani non si ricandiderà, la reputazione di D’Alema è ammaccata, Vasco Errani se ne sta sempre più defilato.

Il guaio è che l’assise cade nel peggior momento possibile per il partito nato il 25 febbraio 2017 da una scissione a sinistra del Pd. All’epoca c’era Renzi segretario, aveva perso rovinosamente il referendum e giurato vendetta ai compagni del «no». Da lì non è andato tutto bene: alle elezioni del 2018 Leu, cartello fra Art.1 e Si, si è fermato poco sopra il 3 per cento. Bersani ha spinto da subito per l’alleanza con il M5s ma Renzi ha scelto i popcorn ed è nato il governo gialloverde. Leu è restato un gruppo parlamentare alla Camera e una componente del Misto al Senato, ma fra i due partiti è stata subito separazione consensuale. Nell’autunno del 2019 il miracolo: muore il governo Conte di destra, nasce il governo Conte di sinistra.

Speranza è ministro. Per Art.1 è resurrezione. Con la segreteria di Nicola Zingaretti i rapporti con il Pd erano diventati cordiali, con quella di Enrico Letta sono strettissimi. Ma comunque il problema resta quello del 2018: in vista delle prossime politiche, compagni e compagne, che si fa?

La strada sperata da quasi tutti – potremmo dire «tutti tranne Tozzo» – era un viottolo più o meno elegante con destinazione ritorno al Pd, meglio se rinnovato con un bel big bang purificatore. Ma Letta, che pure ha uno sguardo benevolo sulla faccenda, sa che i suoi ex renziani – parola bandita dal Nazareno – ringhiano all’ipotesi di uno sbilanciamento a sinistra. Così, quando a fine 2021 D’Alema, ancora D’Alema, dice che il Pd ormai è «guarito dalla malattia terribile del renzismo», il segretario dem si irrita non poco. Anche perché del renzismo Letta è stato la prima vittima, nel 2014, ma non dimentica il contributo della sinistra all’avvento dello stil bullo del fiorentino.

Niente più listine

Oggi fra Pd e Art.1 i rapporti sono affettuosissimi. Oltre venti le Agorà tenute con Bersani, Speranza, Errani, Maria Cecilia Guerra, Roberta Agostini e Arturo Scotto: su proposte quasi identiche su lavoro, salute, scuola, fisco. Ma a fine incontro poi ciascuno torna a casa sua. In verità la guerra russo-ucraina ha guastato qualche sfumatura. Art.1 ha votato sì al primo invio di armi a Kiev ma giurando che sarebbe stata l’ultima volta. Alla Camera Nico Stumpo ha votato no all’aumento delle spese militari. E un ordine del giorno votato dai territori dice «no al riarmo nazionale».

Letta resta ecumenico: «Con Art.1 stiamo lavorando a una convergenza sempre più profonda». Ma in concreto? «Alle viste non c’è una confluenza», spiega il coordinatore nazionale Scotto «ma certo chiudiamo con la stagione dei cartelli della sinistra radicale». Quindi niente più listine.

Nel documento congressuale il gruppo dirigente chiede «il mandato dei nostri iscritti per proseguire e completare nei prossimi mesi il confronto con il Pd e altre realtà politiche e associative dell’area progressista interessate a costruire una proposta e una soggettività comune in vista delle prossime elezioni, che funga da architrave del nuovo centrosinistra» per prendere «le decisioni politiche e organizzative più adeguate». Traduzione non autorizzata: Speranza chiede le mani libere per il momento in cui il Pd offrirà qualche posto nelle sue liste.

Se non è un congresso di scioglimento, è quello subito prima. Niente affatto, replica Scotto, «puntiamo a una lista della famiglia del socialismo europeo». L’ottimo sarebbe il «modello Genova», lista e simbolo comune, quello del Pd e sotto, piccolini, quelli di Art.1 e dei socialisti del Psi.

E questo è un primo problema. L’altro sono i Cinque stelle. Anzi l’altro è Conte. Per il Pd l’ex premier è la “Grande delusione”. Bersani e compagni fanno più fatica ad ammetterlo: sono stati i primi sostenitori dell’alleanza giallorossa e quando Conte era «il punto di riferimento del centrosinistra» qualcuno di loro è stato persino tentato dalla «cosa contiana» poi fortunatamente evaporata. Oggi le azioni dell’ex premier sono in picchiata. Giovedì in tv, da vecchio amico dei gilet gialli, non è riuscito neanche a dire che in Francia tifa Emmanuel Macron. Per Scotto meglio sarebbe tornare al proporzionale, «ma se la legge elettorale resta quella che è, nessuno può uscire dal quadro della coalizione.

E dentro una coalizione le forze devono avere delle aree di rappresentanza da coltivare. Un’offerta nuova del resto serve a tutti, anche al Pd: una proposta che recuperi l’astensionismo e quelli che con i partiti classici proprio non ce la fanno». Dunque in teoria le giravolte di Conte, che Scotto chiama eufemisticamente «attivismo sul profilo identitario dei Cinque stelle» non preoccupano.

Va bene che cerchi voti, sperabilmente non quelli degli alleati. «Ma noi all’alleanza crediamo ancora. Doveva consentire al M5s di assumere l’alfabeto costituzionale di cui era privo e a noi di toglierci da dosso la polvere di establishment». Il guaio è che anche in questo caso non è andato tutto bene: «Purtroppo loro sono diventati un po’ più establishment e noi lo siamo rimasti ancora troppo».

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