Ogni giorno ha la sua pena. Anche ieri, come ogni giorno o quasi, Enrico Letta si ritrova a cucire toppe sugli strappi dell’alleato Giuseppe Conte, sempre più insofferente. Alla presentazione della scuola di formazione dei Cinque stelle, il leader bacchetta di nuovo il Pd. Tema: le amministrative. «Mi fa piacere che in tanti comuni con il Pd andiamo insieme», dice il presidente M5s, «ma noi abbiamo alcuni standard, ad esempio sulla legalità, per cui ci sono alcuni comuni in cui non è possibile andare insieme».

Con chi ce l’ha? Forse un po’ anche con i suoi: in Campania il ministro Luigi Di Maio ha stretto rapporti con il presidente di regione Pd, Vincenzo De Luca, non proprio amichevole all’asse di Conte con il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi. O forse Conte si riferisce alle indagini sul comune di Chivasso, in mano a Claudio Castello del Pd; o ancora al dossier Pozzuoli, dove si indaga su Nicola Oddati, ex membro della direzione nazionale (si è dimesso da ogni incarico) e su altri esponenti Pd, tra cui il sindaco Vincenzo Figliolia. In ogni caso sono parole pesanti, che l’ex premier ribadisce: «Noi respingiamo atteggiamenti giustizialisti del passato, per noi gli indagati sono presunti innocenti, ma pretendiamo il rispetto delle regole».

Crisi congelata fino a giugno

Il guaio è che in contemporanea al Nazareno, la sede nazionale del Pd, è in corso la presentazione delle candidate sindache. Francesco Boccia, responsabile enti locali, e fan dell’asse giallorosso, sta spalmando miele sull’alleanza. «Il campo largo che troveremo nel 70 per cento delle città che vanno al voto è un punto fermo. Nel 2021 abbiamo iniziato a costruire il campo largo che c’è stato nel 50 per cento delle città andate al voto a ottobre. Si vince uniti ed è quello che faremo».

E così al Pd tocca di nuovo essere unitario per due. E a Letta tocca di nuovo minimizzare: «Sono fiducioso», assicura, ma è più un’invocazione che un’affermazione, «adesso si vota per i comuni quindi il nostro impegno è a far funzionare “il campo largo” nei comuni. Sono convinto che se funzionerà in tutta Italia sarà una spinta in più per far sì che funzioni anche a livello nazionale».

Al Nazareno la parola chiave è «pazienza». Almeno fino ai ballottaggi del 29 giugno. Poi si vedrà. Anche perché a palazzo circola la voce secondo cui alle politiche Conte alla fine correrà da solo. Proporzionale o no, costi quel che costi, «pur di non elemosinare i collegi uninominali al Pd dopo le amministrative», dice un deputato M5s. Con il Rosatellum i costi sarebbero salati: regalare tutti i seggi uninominali alle destre.

Il caso dell’inceneritore

Il Pd scruta i segni. Per esempio ieri Conte ha minacciato il governo di non votare la conversione del decreto aiuti: «Sulla norma sull’inceneritore (di Roma, ndr) spero non si pensi neppure lontanamente di calare la fiducia». Eppure fin qui la protesta M5s sul termovalorizzatore romano annunciato a sorpresa dal sindaco Roberto Gualtieri era stata severa – soprattutto in Campidoglio, dove siede Virginia Raggi – ma attenta a non spezzare la corda. Martedì l’assessora del Lazio Roberta Lombardi, contraria all’opera, ha incontrato Gualtieri, ma all’uscita ha usato toni non barricaderi. Anche Conte l’aveva toccata piano dopo l’astensione dei suoi al Consiglio dei ministri: «Siamo favorevoli a dare poteri straordinari al sindaco, ma non possiamo riconoscergli una cambiale in bianco». Per non “strappare” aveva cercato una sponda nella regione Lazio, dove il M5s è in giunta con Nicola Zingaretti. E l’aveva trovata: il piano rifiuti regionale non prevede un termovalorizzatore, e così il presidente ha dato la sua benedizione politica all’iniziativa del sindaco, ma ha rassicurato la sua maggioranza che la giunta non si esprimerà ufficialmente a favore.

C’è poi sul tavolo il caso Petrocelli. Dopo le dimissioni di tutti i membri della commissione Esteri, i pensieri dei Cinque stelle corrono già alla sua sostituzione: dei due candidati, Gianluca Ferrara e Simona Nocerino, per Conte ha carte migliori il primo. Difficile però che il Pd arrivi a votare un successore che ha posizioni geopolitiche molto simili a quelle del presidente uscente.

La trincea di Zingaretti

Il Pd spera che il conflitto non porti conseguenze letali all’alleanza. Letta ha dato mandato a una discretissima operazione di sondaggio in parlamento sulle possibilità di successo di una riforma elettorale proporzionale, che consentirebbe il liberi tutti da un campo largo nazionale sempre più scomodo. Ma la percentuale di esito positivo è vicina allo zero.

Quindi che fare? Pazientare. Fino a fine giugno. Tenendosi l’irritazione. Nella consapevolezza che Conte ha aperto tre fronti: quello con Mario Draghi, quello interno con Di Maio e quello con il Pd. Intanto rafforzare il lato sociale del programma per non concedere ai Cinque stelle l’esclusiva su quel terreno. Del resto al Nazareno la convinzione più recente è che la guerra non sia dirimente nei consensi. Per queste si è intensificato il fuoco su salari e aiuti alle famiglie. Valorizzando il lavoro del ministro Orlando. E sottolineando «la ridistribuzione» del decreto aiuti.

In attesa dell’esito delle comunali, cruciale è anche il ruolo di Zingaretti, che regge la trincea dell’esperienza più importante di governo giallorosso, insieme a Bologna e Napoli. Così si spiegano alcune sue scelte di profilo: per esempio una impercettibile sottoesposizione sulla guerra, su cui pure è schierato con il segretario. Zingaretti evita di sottolineare temi divisivi. Se M5s non farà parte dell’alleanza, nel futuro del Lazio la vittoria della destra è scritta (Ieri l’assessore Alessio D’Amato ha fatto sapere che parteciperà alle primarie, se ci saranno). Zingaretti per oggi ha organizzato l’agorà Costruiamo un futuro più giusto con lavoratori, operai, ricercatori. Lunedì scorso però ha parlato fuori dai denti al seminario dei giovani turchi sulla legge elettorale: sì al proporzionale, ha detto, l’importante è «decidere presto, altrimenti saremmo poco credibili: cambiare legge significa cambiare la campagna elettorale».

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