«Ho appena consegnato al presidente Fontana una richiesta di istituire un giurì d’onore per accertare le menzogne denigratorie del presidente del Consiglio, nonché deputata, Giorgia Meloni». Nella serata di domenica Giuseppe Conte aveva annunciato «un’importante notizia» da comunicare, cercando di alzare le aspettative dei media affaccendati intorno allo scontro fra la premier e la segretaria del Pd.

Ieri in tarda mattinata l’“importante notizia” è arrivata: Meloni lo ha accusato in aula e poi alla sua festa di partito di aver ratificato il Mes «alla chetichella» dopo le sue dimissioni, lui la riaccusa: «Mente sapendo di mentire». Che le cose non fossero andate come dice la premier l’aveva già spiegato Luigi Di Maio, l’allora ministro degli Esteri. Ora tocca all’ex premier: la condotta di Meloni, dice con enfasi, «ha leso l’onore di un singolo deputato, dell’intero mio gruppo, ha danneggiato e danneggia l’Italia e umilia il parlamento».

Il leader M5s alza il livello dello scontro istituzionale. E si rimette nelle mani del presidente della Camera, che per una sfortunata coincidenza oggi non potrà rispondere alle domande dei cronisti sul caso: la cerimonia dello scaldino di Montecitorio, lo scambio di auguri natalizi con la stampa parlamentare previsto per oggi, è rimandata.

Federatrice di correnti

Conte si riprende la scena, dopo un weekend in cui le protagoniste erano state la premier, alla conclusione della festa di partito, ed Elly Schlein, investita da Romano Prodi del possibile ruolo di «federatrice» dell’alleanza di centrosinistra. Alla «polarizzazione» fra le due, lui non ci sta. Anzi lancia una battuta velenosa all’indirizzo della segretaria dem: «Intanto federi le correnti del Pd, il M5s non ha bisogno di essere federato». Insiste: «Mi piacerebbe che il Pd possa far chiarezza sulla questione morale che per noi è fondamentale, ma anche sulla transizione verde, sulla politica estera».

Quanto alla riunione dei leader dem al Forum europeo, «tra i padri nobili del Pd ho visto chi voleva il nostro assassinio politico», dice, «non ho visto mea culpa». L’allusione è a Enrico Letta, l’ex segretario accusato da sempre di aver spalleggiato la sfortunatissima scissione di Di Maio dal movimento.

Conte è freddo sulle alleanze giallorosse alle amministrative, dove il Pd spesso si sta accontentando del ruolo di portatore di voti (come alla regione Sardegna, dove ha concesso la candidatura a presidente alla grillina Todde a costo di spaccare la sinistra): «Ci confrontiamo senza pregiudizi, ma per un progetto politico in comune con il Pd occorrono patti chiari e affidabilità degli interlocutori locali», e «dove non ci sono queste condizioni andiamo da soli». Non chiude la porta all’alleanza, ma «c’è ancora strada da fare» anche se – concede, bontà sua – «il seme dell’alternativa del governo è stato posto». L’ultima zampata però è ancora per Schlein e la sua ipotesi di candidarsi alle europee in tutte le circoscrizioni: «Io lo escludo nel modo più assoluto. Noi non mentiamo agli elettori».

Il boomerang

Dal Nazareno arriva la solita “non replica”: «Siamo impegnati a contrastare Meloni e il suo governo, non rispondiamo agli attacchi di Conte» perché la segretaria «ha la responsabilità di guardare il primo partito di opposizione». «Primo», è la sottolineatura: a destra il primo partito alle politiche ha espresso la premier; perché nel centrosinistra non vale la stessa regola? Semplice: perché Conte fin qui ha lasciato capire che, se non toccasse a lui, non ci starebbe. Parte comunque il solito ordine di scuderia ai dirigenti: non replicare al presidente pentastellato. Ma stavolta qualcuno non si tiene, anzi disobbedisce.

Come la vicepresidente dell’Europarlamento Pina Picierno: «Conte dovrebbe essere più rispettoso. Ogni pazienza ha un limite. Chiarisca senza giri di parole se intende costruire l’alternativa alle destre insieme». E Debora Serracchiani restituisce al mittente l’accusa di poca chiarezza sulla “questione morale”: «Ha governato con la destra sovranista e con il Pd, è perfettamente in grado di valutare con chi condivide più punti di contatto, senza chiedere a nessuno di sottoporsi a esami di correttezza politica».

Ma il Pd è più tormentato di quello che affiora. La (presunta) investitura di Prodi a Schlein è stata vantata con entusiasmo dalla cerchia della segretaria. Invece ha scatenato la reazione di Conte. Era prevedibile. E fa capire che l’ex premier ha preso sul serio l’obiettivo di accorciare le distanze con il Pd alle europee. Di qui a giugno non perderà occasione per smontare il meccanismo che al Nazareno piace molto, quello della «polarizzazione» fra la premier e la segretaria. Un giocattolo che piaceva anche a Letta ai tempi della campagna per le politiche: ma non gli ha portato bene.

Polarizzazione pericolosa

Una polarizzazione che fin qui aveva galvanizzato molti parlamentari vicini a Schlein. Ora invece li preoccupa. Meloni ha lasciato capire che correrà da capolista FdI in prima persona, punta al 30 per cento. Con ogni probabilità faranno altrettanto Salvini per la Lega e Tajani per Forza Italia. Dalla parte opposta la segretaria Pd è tentata di fare lo stesso. Ma deve riflettere su quello che l’aspetta: il malumore (è un eufemismo) delle candidate che si vedrebbero sottorappresentate causa pluricandidatura; e per la corsa per un incarico cui poi rinuncerebbe. Certo, raccogliere molti voti la rafforzerebbe nel Pd.

Ma il paragone fra il proprio risultato e quello di Meloni è rischioso. Infine nel Pd l’attesa dei papabili candidati si sta allungando troppo. E così la «pax europea», cioè la tregua in attesa della composizione delle liste, comincia a scricchiolare. Per ragioni concrete, spiega a Repubblica Alessandro Alfieri, esponente di peso dell’area riformista: «I collegi sono enormi, col voto di preferenza. I candidati devono poter partire subito».

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