Lo scontro tra Giorgia Meloni e Stellantis continua colpo su colpo, nonostante la presidente del Consiglio abbia scelto di non schiacciare la palla che le ha alzato Carlo Calenda durante il premier time con un’interrogazione sull’opportunità di convocare i vertici dell’azienda dopo le delocalizzazioni degli impianti produttivi Fiat e Magneti Marelli.

Meloni ha detto di voler difendere l’interesse nazionale e accusato il gruppo di tenere in maggiore considerazione le istanze francesi rispetto a quelle italiane. La risposta di Stellantis, che ha rivendicato gli investimenti in Italia non si è fatta attendere.

La domanda posta da Azione arriva al termine di una serie di scambi tra la premier e il management dell’azienda. Uno scontro che nasceva da un titolo di Repubblica – a sua volta di proprietà degli Elkann – sulla strategia di privatizzazioni delle partecipate pubbliche. In risposta al quotidiano Meloni aveva spiegato di non voler accettare «lezioni» da chi negli anni ha spostato impianti di produzione sempre più spesso all’estero. Anche nell’intervento di mercoledì, continuando nella sua linea ostile verso il quotidiano, ha fatto notare a proposito di privatizzazioni che qualcuno le racconta «come se fosse uno scoop» ma che sono «scritte nella Nadef».

La premier sovrappone proprietà e linea editoriale, polemizzando per una condizione di editore impuro che è la stessa di Antonio Angelucci, editore di Tempo, Libero e Giornale oltre che grande imprenditore nel settore delle cliniche private. Nei confronti di Angelucci, però, Meloni sembra avere meno problemi, visto che è anche un senatore della sua maggioranza.

Peraltro, l’offensiva parallela di Meloni contro la stampa è proseguita con la raccomandazione, nel mattinale Ore 11 curato dal sottosegretario alla presidenza Giovanbattista Fazzolari e indirizzato a tutti i parlamentari di FdI, di dare seguito alla campagna contro il quotidiano considerato «ostile» così come un’altra lunga serie di trasmissioni e testate, non ultima la nostra.

Alle parole di Meloni è seguita la risposta di Carlos Tavares, amministratore delegato di Stellantis, che ha invitato la premier a tenere conto anche dei 40mila dipendenti che il gruppo impiega in Italia. La presidente durante il premier time è però parzialmente tornata sui suoi passi, limitandosi a parlare di un «dialogo» aperto con l’azienda «per tutelare l’interesse nazionale».

«Il ministro Urso ha incontrato più volte le persone in questione per difendere la produzione in Italia, i livelli occupazionali e tutto l’indotto dell’automotive» ha detto Meloni, tirando in ballo il tavolo di settore istituito con il settore dell’automotive dopo la firma. Iniziativa che però non ha impedito a Stellantis di affidare la produzione della Fiat Panda elettrica allo stabilimento di Kragujevac, in Serbia. Esattamente come non l’hanno trattenuta gli «incentivi, come l’ecobonus per sostenere la domanda e misure di sostegno per attrarre nuovi investitori e nuovi costruttori» che la premier ha citato nel seguito della sua risposta ai parlamentari di Azione.

Certo, a dicembre, quando si è diffusa la notizia, i parlamentari di FdI della zona di Pomigliano d’Arco, dove la Panda tradizionale sarà prodotta fino al 2026, non hanno contestato la decisione di Stellantis.

La replica del gruppo

Meloni ha anche annunciato di aver «modificato le norme scoraggiando chi delocalizza, che dovrà restituire ogni beneficio o agevolazione pubblica ricevuta negli ultimi 10 anni. Vogliamo, cioè, tornare a produrre in Italia almeno un milione di veicoli l'anno con chi vuole investire davvero nella storica eccellenza italiana».

Un desiderio che Stellantis non avrebbe, fa intendere Meloni, raccontando come la «presunta fusione fra Fca e Psa celava un’acquisizione francese dello storico gruppo italiano, tanto che oggi nel cda di Stellantis siede un rappresentante del governo francese».

La premier ha citato anche lo sbilanciamento della produzione: «In Francia si produce più che in Italia, dove siamo passati da oltre un milione di auto prodotte nel 2017 a meno di 700.000 prodotte nel 2022, così come, secondo i sindacati, dal 2021 qui sono andati persi oltre 7.000 posti di lavoro».

Una lettura della realtà non condivisa da Stellantis, che ha ribadito come l’azienda abbia investito «diversi miliardi di euro nelle attività italiane per nuovi prodotti e siti produttivi». Il gruppo rivendica anche di aver contribuito alla bilancia commerciale italiana, visto che il 63 per cento dei veicoli prodotti lo scorso anno negli stabilimenti italiani del gruppo – in crescita del 9,6 per cento rispetto al 2022 – sono stati esportati all'estero.

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