Come previsto – oltre che auspicato – a luglio Giorgia Meloni andrà a Washington per incontrare il presidente americano Joe Biden. I due si sono già visti a vari summit. Si attendeva un invito speciale che è giunto.

Si stempera la polemica – tutta italica invero – sulle chiamate del presidente Biden ai vari leader europei nelle ore convulse della ribellione della Wagner. Succede ogni volta che, per una ragione o l’altra, giungono chiamate da Washington: una gara a chi viene sentito per primo.

Ci sono passati tutti i nostri governi di qualunque colore, salvo forse quello di Mario Draghi, che non fa testo perché da decenni intrattiene relazioni personali con numerosi leader Usa. L’essenziale ora è concentrarsi sui temi che saranno discussi nella capitale americana.

Certamente Ucraina e Via della Seta sono i due pezzi importanti del menù. Da una parte Biden vorrà assicurarsi della tenuta del nostro governo sulle posizioni già assunte ma anche chiedere l’opinione italiana sulle ipotesi di exit strategy che potrebbero vedere la luce.

La recente scossa avvenuta a Mosca, così come gli scarsi risultati della controffensiva, stanno facendo riflettere Biden e i suoi. Non a caso appaiono sempre più articoli di autorevoli commentatori che indicano la necessità di una via di uscita.

Il direttore del Council on Foreign Relations Richard Haass firma, assieme a Charles Kupchan, un fondo – molto ripreso all’estero – sul necessario cambio di strategia fuori «dal sanguinoso stallo»: per l’Ucraina «sarebbe poco saggio continuare ostinatamente a puntare sulla completa vittoria militare».

Su Foreign Affairs Samuel Charap della Rand corporation (think tank vicino alla difesa Usa) parla di «unwinnable war» (guerra che non può essere vinta), indicando come “archetipo” l’accordo armistiziale in Corea del 1953. Lo stesso Charap analizza lungamente le varie opzioni in un lungo studio della Rand intitolato “Evitare una guerra lunga”, in cui la tregua coreana è assimilata a quella sulla Transnistria del 1992.

Un ulteriore saggio del Csis (Center for Strategic and International Studies) suona l’allarme per i decisori: dai dati emerge che «quando una guerra tra Stati oltrepassa un anno, in media dura 10 anni».

Insomma: a Washington sono sempre più numerosi a pensare che occorre uscire dall’impasse attuale. Questo è il clima che troverà la nostra premier, assai diverso da quello degli ultimi mesi e che può offrire opportunità all’Italia: il negoziato e/o la tregua non indeboliscono il nostro sostegno all’Ucraina ma rappresentano la via della politica.

E soltanto la politica ha più strumenti e possibilità della guerra. L’altra questione è l’accordo sottoscritto con la Cina a cui gli Usa ci chiedono di rinunciare. L’idea prevalente nel governo è di ottemperare. Tuttavia occorre agire con prudenza per non offendere Pechino. Qui molto dipende dall’abilità dei nostri diplomatici nel trovare la formula giusta in accordo con Washington.

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