La teoria delle “mele marce”, ovvero del prete pedofilo come criminale inveterato che approfitta scientemente della veste che indossa per molestare e violentare i bambini, non regge alle molte serie analisi che sul profilo psicologico di costoro sono state condotte negli ultimi decenni.

Gli elementi comuni che fanno da sfondo agli abusi clericali sono talmente tanti e talmente significativi da obbligarci a riflettere con serietà sugli aspetti istituzionali e organizzativi del fenomeno.

Il celibato

L’elemento attorno a cui tutto ruota è costituito dall’istituto del celibato obbligatorio per il clero cattolico. L’esistenza di questa norma e l’importanza che essa assume nell’intero impianto organizzativo e formativo della chiesa assumono un’importanza gigantesca nella questione degli abusi.

Un giovane cattolico può oggi, con una certa facilità, non solo violare la prescrizione della castità prematrimoniale, ma anche annunciarlo in pubblico, ai suoi coetanei e talvolta anche al prete, senza vedersi per questo stigmatizzato o  punito dal sacerdote.

Nel caso di un giovane seminarista le cose vanno diversamente: la sua vita è oggetto di un costante monitoraggio da parte dell’istituzione: ogni momento della giornata è strettamente regolato e le occasioni di libertà, soprattutto quelle all’esterno degli istituti, sono quasi nulle.

Inoltre, nei seminari, il bombardamento ideologico a favore del celibato è costante e martellante e su ogni trasgressione pende la spada di Damocle dell’espulsione immediata, dell’interruzione della carriera.

Nel percorso di formazione seminariale poi i temi della castità e della sessualità sono affrontati in una chiave immancabilmente ed esclusivamente teologica e razionale, sono cioè argomenti libreschi e dottrinari, mai trattati in relazione alla vita concreta dei singoli e la castità assume sempre le sembianze di un supremo ideale normativo a cui aspirare, di una meta che ogni candidato al sacerdozio deve sforzarsi di raggiungere.

La distanza dall’ideale è fonte, almeno per chi ha appena iniziato la vita seminariale e ovviamente non riesce a mantenersi casto anche solo nei pensieri o nella pratica della masturbazione, di sensi di colpa e di inadeguatezza praticamente permanenti.

La solitudine

La solitudine è una delle cifre più evidenti della vita sacerdotale. Nel momento in cui entra in seminario l’aspirante sacerdote attenua o scioglie completamente tutti i suoi legami sociali preesistenti, spesso senza acquisirne davvero di nuovi.

All’interno dell’istituzione infatti le amicizie tra pari sono fonte di pericoli reali, in primo luogo quello di fidarsi delle persone sbagliate, di confidarsi (soprattutto su aspetti della vita intima) con soggetti che poi si rivelino inclini alla delazione e al tradimento.

Anche le persone esterne al seminario raramente possono diventare veri amici, non solo per i rischi che questo implica, ma anche perché, all’esterno del corpo ecclesiale, i preti, per via dell’aura di sacralità che li circonda, sono quasi sempre ritenuti immuni da difficoltà sentimentali e affettive.

Aprirsi con un laico, confessare a lui le proprie pene, significa poi inevitabilmente per il sacerdote, per come è costruita socialmente l’immagine del prete cattolico, rinunciare al proprio status, abbassarsi alla condizione di tutti i mortali alle prese con problemi di cuore, affettivi, emotivi, eccetera.

Anche la vita successiva all’ordinazione, quella trascorsa in parrocchia, è spesso segnata da una sostanziale e profonda solitudine esistenziale, fonte di vari sentimenti negativi e di diversi comportamenti nocivi (non solo l’alcolismo e varie forme di dipendenza, ma anche gli abusi sessuali).

Infine, la solitudine è riconosciuta da tempo da più parti (anche all’interno dello stesso ambiente ecclesiale) come una delle principali cause di infelicità e di frustrazione del clero, uno dei motivi di scontento che spinge molti a dismettere l’abito e in seguito a sposarsi e a formare una famiglia.

L’immaturità sessuale 

La vita sessuale degli aspiranti preti si svolge tutta nell’ombra, circondata dal segreto e spesso, almeno nei primi anni di vita all’intero dell’istituzione, sotto il segno della colpa, del rimorso e dell’inadeguatezza rispetto all’ideale presentato di continuo dall’istituzione, della paura di essere smascherati e denunciati.

Le prime esperienze amorose sono spesso tardive e poco soddisfacenti così come largamente approssimativo e incompleto è il bagaglio di conoscenze sulla sessualità. Il risultato è una spiccata immaturità sessuale rispetto al resto della coetanea popolazione maschile, un grave ritardo nello sviluppo di un sano e fisiologico rapporto con il desiderio sessuale e la corporeità e una sistematica associazione del piacere sessuale alla mancanza e al peccato.

In altre parole, i preti rimangono a lungo, su questo versante, in uno stadio infantile e immaturo, dominato dalla masturbazione (spesso ossessiva) e da un castello di fantasie e di fantasmi, tanto attraenti e seduttivi quanto repellenti e spaventosi.

Peraltro l’immaturità è un elemento che non riguarda solo la sfera della sessualità e dell’affettività, ma l’intera personalità dei membri del clero. Il fatto è che, nella vita in seminario, i futuri sacerdoti, tutti almeno ventenni, vengono sistematicamente e radicalmente infantilizzati, trattati come bambini totalmente incapaci di agire in modo autonomo.

La loro esistenza è regolata dall’istituzione in ogni minimo dettaglio e tutte le comunicazioni all’esterno e all’interno del seminario sono oggetto di una costante rigidissima sorveglianza.

Le funzioni manifeste, i fini espliciti, di questo regime disciplinare riflettono, da un lato, l’esigenza, che l’organizzazione avverte come primaria, di controllare con scrupolo e severità l’autenticità e la profondità della “vocazione” del seminarista, dall’altro, il desiderio di sviluppare nella coscienza di quest’ultimo un sentimento di dipendenza incondizionata e di totale subalternità nei riguardi dell’istituzione, una disponibilità all’obbedienza disciplinata ritenuta qualità indispensabile per un funzionario della chiesa.

L’attitudine alla sottomissione dei seminaristi viene testata di continuo nel percorso formativo e costituisce uno dei principali obiettivi educativi della formazione clericale.

Le funzioni latenti di questo dispositivo sono numerose e consistono, da un lato, nella maturazione nei seminaristi di una peculiare capacità di eliminare o circoscrivere nei loro comportamenti esteriori e pubblici tutti i sintomi di pose non conformi alle aspettative dell’istituzione e quindi di mentire e nascondere i loro sentimenti autentici (è la dinamica del gioco tra il gatto e il topo, tra il predatore e la preda: quanto più l’organizzazione si impegna nel tentativo di smascherare i disobbedienti tanto più i futuri “funzionari di Dio” si ingegnano a escogitare trucchi e artifici per apparire docili in pubblico e insieme coltivare, ma solo nell’ombra e nell’oscurità della doppia vita, la propria libertà), dall’altro nel fatto che i seminaristi si abituano a considerare importante e temibile solo ciò che proviene dall’alto, dai loro superiori, dai dirigenti dell’organizzazione e a considerare invece irrilevanti i bisogni e gli interessi di chi occupa una posizione inferiore alla loro nella gerarchia, quindi in primo luogo i fedeli, le pecorelle del gregge concepite immancabilmente come creature da guidare con sapienza e fermezza e non come persone alle quali rispondere con responsabilità e rispetto.

Entrambe queste caratteristiche giocano una parte importante nella generazione degli abusi anche per vie meno prevedibili, quindi non solo per l’ovvia circostanza che molti preti si trovano in uno stadio di maturazione sessuale simile a quello delle loro vittime. Ad esempio, come ha rilevato Kelly, il disciplinamento feroce genera una rabbia profonda e repressa che si traduce poi talvolta, oltre che in depressione e tristezza, in un’aspirazione all’onnipotenza nel rapporto con il minore abusato.

L’anaffettività

Ai giovani aspiranti sacerdoti viene insegnato più o meno implicitamente che la fonte principale di pericolo per la solidità del loro percorso vocazionale consiste nell’incapacità di gestire le emozioni, nel deficit di controllo dei desideri e delle pulsioni.

Quello delle emozioni incontrollabili diventa agli occhi dei seminaristi il principale dei mostri da tenere a bada per poter trascorrere un’esistenza serena. Il problema è che questo, la costante esaltazione della razionalità sull’emotività, genera spesso sia una manifestazione in forme non ortodosse dei bisogni emotivi e sessuali repressi, sia una sistematica incapacità di accettare ogni forma di attività emotiva e una totale assenza di empatia, una strutturale inabilità a mettersi nei panni degli altri immaginando cosa questi possano provare e sentire anche in conseguenza delle nostre azioni.

Questo tratto della “personalità clericale” si rivela esteriormente nel mostrarsi sempre di buon umore, disponibili, in uno stato d’animo immancabilmente distante dall’aggressività, dalla rabbia, dal risentimento e da altri sentimenti incontrollati. Fare mostra delle proprie emozioni non rientra insomma nello “stile clericale”.

Tale “anaffettività addestrata”, nel caso degli abusi, si manifesta come incapacità di mettersi nei panni delle vittime, ovvero dei mi- nori abusati: il prete abusatore non riesce spesso nemmeno a comprendere l’entità dei danni che produce nel minore, pensa che quel che sta facendo (l’abuso) non avrà conseguenze particolarmente negative per il ragazzo o la ragazza che gli sta di fronte.

L’enfasi costante ed eccessiva sull’importanza di seguire le norme, di rimanere fedeli alle regole combinata con la difficoltà ad accettare e a venire patti con le proprie emozioni rischia di ingenerare, in tanti preti, un’attenzione quasi ossessiva ed esclusiva per il rispetto delle leggi della chiesa a discapito di tutto il resto.

Sotto questo profilo, l’abuso commesso su un minore rischia di essere interpretato, dall’abusatore, più come manifestazione di un peccato (la commissione di atti impuri) che come quella di un crimine commesso su una persona reale che ne patirà a lungo le conseguenze.

Segreto e la menzogna.

I preti trascorrono un’intera esistenza, a partire dagli anni della formazione, immersi in un “cultura del segreto” all’interno della quale tutte le cose rilevanti della vita intima, della sfera affettiva, emotiva e personale sono impossibili da rivelare in pubblico. Essere sincero per un prete è un’impresa letteralmente impossibile e proibita.

La doppia vita, nel senso di un’esistenza privata completamente celata in pubblico, è la regola, lo standard, il nascondimento una necessità non aggirabile per poter continuare a indossare la veste senza rinunciare a soddisfare i propri bisogni emotivi e affettivi.

Naturalmente tutti i rischi che derivano dalla formazione clericale possono essere molto ridotti e addirittura quasi del tutto annullati dalle reazioni che i seminaristi e i preti mettono in atto, durante e dopo gli anni della loro formazione per contrastarli.

Perché i singoli (e questo vale in ogni contesto umano) sono creature intelligenti e non vittime passive dei processi di socializzazione, le loro coscienze non sono mai semplici contenitori, vasi in cui possano essere semplicemente travasate le richieste e le esigenze dell’istituzione, le aspettative che la chiesa ha costruito intorno al ruolo del prete celibe e casto.

Al termine di un naturale processo di maturazione umana, che in questo caso, per le ragioni che ho esposto sinora, può risultare rinviato nel tempo, la maggioranza dei membri del clero acquisisce una propria e distinta personalità, un modo peculiare di essere e di fare il prete.

Questo esito, quando si produce, è ovviamente un bene per tutti: per il prete, che si salva dal tentativo di annientamento della sua individualità implicito nella socializzazione clericale; per l’istituzione, che certo fa di tutto per “programmare” il sacerdote secondo le sue esigenze, ma che, se vi riuscisse completamente, avrebbe alle proprie dipendenze un “cultural dope”, un automa mostruoso privo di autonomia e di intelligenza e incapace di esercitare con efficacia il potere pastorale, di far funzionare parrocchie e oratori; per le comunità dei fedeli, che possono beneficiare di una guida equilibrata e umana e non di un robot telecomandato dall’istituzione.

Nella testa degi abusatori

Il rafforzamento della posizione del sacerdote rispetto all’istituzione non è solo una conseguenza diciamo logistica del fatto che costui vive, dopo l’ordinazione, in una casa parrocchiale, spesso da solo e comunque molto lontano dal clima claustrale del seminario. C’è un altro elemento che pesa non poco a suo vantaggio: il fatto che la chiesa ritenga un uomo ordinato prete “sacerdote a vita”.

Nella sua persona, per effetto del sacramento, si sarebbe prodotta una trasformazione radicale, un’alterazione irreversibile che lo accompagnerà tutta la vita (e che produce l’aura sacrale di cui gode, insieme a tutta l’istituzione, agli occhi dei fedeli). La sua espulsione dai ranghi del clero è, per questo motivo, un gesto estremo, un’azione limite, che la chiesa compie solo molto di rado e assai malvolentieri.

Questo aspetto irrobustisce ovviamente moltissimo la posizione del prete, funzionario a tempo indeterminato ben oltre i limiti della pensione.

Gli eccezionali risultati di ricerca ottenuti da Marie Keenan intervistando nove preti abusatori mostrano come anche l’abuso possa purtroppo rappresentare una forma non trascurabile di adattamento secondario per una porzione non piccola di membri del clero cattolico. In primo luogo, perché quasi nessuno degli abusatori  esibisce i tratti di una patologia psichiatrica associata alla pedofilia o a qualche sindrome anti sociale.

Non si tratta quindi, nella stragrande maggioranza dei casi, di “pedofili”, cioè di persone clinicamente malate irresistibilmente attratte in modo esclusivo dal sesso con i minori, ma piuttosto di “abusatori”, cioè di soggetti (spesso depressi, ammalati di solitudine e immaturi sessualmente più che aggressivi e perversi) che, a un certo punto della vita e spesso in una forma contestuale con altre relazioni, abusano sessualmente di minori, spesso semplicemente approfittando dell’opportunità che deriva dal contatto frequente con questi ultimi.

Inoltre, nessuno di costoro sembra aver scelto la carriera clericale al fine di poter abusare, cioè per avere un’opportunità di commettere violenza sui minori; al contrario, al fondo della scelta di diventare prete c’è spesso la paura ossessiva del sesso.

Molti abusatori riferiscono di aver percepito l’attenzione sessuale rivolte ai minori come una sorta di “risarcimento” per una vita troppo piena e spesa tutta al servizio dell’istituzione. Il contatto sessuale con un minore rappresenta, per taluni di costoro, una “piccola gioia innocente”: piccola perché molto spesso non comporta la consumazione di un atto sessuale completo e quindi può apparire, agli occhi dell’abusatore, come una sorta di gioco e di “delitto minore” compiuto contro la morale cattolica.

La scarsa rilevanza attribuita al gesto scaturisce anche dal fatto che molti abusatori, per via della mentalità legalitaria e dell’anaffettività addestrata  non sembrano rendersi conto, se non a seguito di un lungo percorso terapeutico, della sofferenza che hanno inflitto ai minori abusati.

Al momento dell’abuso, l’assenza di una ribellione esplicita da parte del minore è stata interpretata da molti abusatori come una manifestazione di consenso (e di apprezzamento) da parte della vittima.

In alcuni casi (non pochi) gli abusatori sono stati, nel passato, a loro volta abusati (talvolta in seminario), ma non sono stati in grado, almeno fino all’inizio della terapia, di riconoscere i danni subiti a causa di quegli abusi. Se così fosse dunque, l’abusatore non vedrebbe il danno che produce sulla vittima perché non vede il proprio.

Molte ricerche hanno messo infine in luce che costoro sono spesso arruolati tra le fila dei super conformisti, degli iper ortodossi, dei fedelissimi all’istituzione e sono spesso carichi di rabbia repressa (come conseguenza di un atteggiamento troppo succube). Non è un dato contradditorio con il loro comportamento sul piano sessuale, con gli abusi che hanno commesso. E non lo è perché, come dimostrano ancora una volta gli studi realizzati in questo campo, c’è da parte di molti di loro un serio tentativo di rimanere fedeli al celibato.

Il sesso con il minore, soprattutto quando è saltuario, non è accompagnato dalla penetrazione ed è seguito dal ricorso al sacramento della confessione (che ne corrobora la rimozione), viene immaginato come meno pericoloso per il rispetto del vincolo celibatario.

Una relazione stabile con un partner adulto e perfettamente cosciente potrebbe rappresentare, agli occhi di molti abusatori, una minaccia molto superiore. I minori si trovano in una condizione di subalternità rispetto al prete, ne subiscono l’autorità, è più probabile che tacciano e tengano segreto quello che è avvenuto con lui e certamente non procederanno a rivendicare l’uscita allo scoperto, o a minacciare di raccontare tutto al vescovo (come avviene con i partner adulti).

Il problema alla radice

Le gerarchie ecclesiastiche cattoliche e i pontefici eliminerebbero molto volentieri il problema degli abusi sessuali del clero che causa loro un’infinità di problemi di diversa natura a livello globale.

La complicazione deriva dal fatto che, se rimuovessero davvero e alla radice le principali tra le cause, ovvero il celibato ecclesiastico e l’imposizione perpetua ai chierici di una vita casta, i vertici sopprimerebbero anche il loro statuto sacrale, la superiorità del loro ceto sui laici e quindi buona parte di ciò che legittima il loro diritto a guidare da pastori il popolo di Dio.

Da questo punto di vista, il cambiamento di atteggiamento, che pure c’è stato passando dal “negazionista” Giovanni Paolo II a Benedetto XVI e poi a Francesco, non è nemmeno lontanamente sufficiente per produrre un qualche cambiamento significativo della situazione, dal momento che non incide in alcun modo, al di là delle buone intenzioni, sui fattori “strutturali”.


Questo articolo è un estratto da In segreto. Crimini sessuali e clero tra età moderna e contemporanea, (Mimesis, 2022) a cura di Lorenzo Benadusi e Vincenzo Lagioia.

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