La strategia che la Chiesa italiana ha scelto per contrastare il fenomeno degli abusi commessi dai membri del suo clero si basa essenzialmente su tre pilastri: l’ostinato rifiuto di una commissione indipendente per indagare sul passato, la disponibilità e l’interesse a raccogliere segnalazioni di abusi e un investimento consistente sulla formazione dei preti e degli operatori pastorali. Questa linea, declinata nel report presentato giovedì dalla Conferenza episcopale italiana, presenta alcuni pregi e molti limiti.

L’arruolamento nella campagna contro gli abusi di decine di psicologi, giuristi, volontari, sacerdoti, nonché la creazione di uffici, commissioni, sportelli, eccetera testimonia non solo che la Chiesa dispone ancora (alla faccia di chi parla di crisi) di risorse materiali e umane impressionanti, ma anche che riconosce implicitamente che il problema esiste e che si tratta di una piaga che affligge, in Italia e in tutto il mondo, soprattutto il cattolicesimo organizzato e molto meno altre istituzioni.

Un secondo pregio consiste nel fatto che a gestire molte di queste attività, pur sempre sotto la supervisione di un sacerdote, sono dei laici e soprattutto delle donne.

E’ positivo che sia spesso una donna a spiegare ai sacerdoti come devono comportarsi nell’interazione con i minori. E’ infatti attorno all’esclusione e all’inferiorizzazione delle donne che si costruisce il nucleo forte dell’identità clericale.

Da questo punto di vista la formazione antiabusi rappresenta una piccola breccia che va accolta positivamente.  

Il bicchiere più vuoto

La breve lista dei pregi finisce qui. I limiti sono più numerosi e seri. Il primo di questi è rappresentato dalla lentezza con la quale la rete dei servizi antiabuso si sta espandendo nel paese.

Ci sono diocesi (e non sono poche) dove non si è fatto nulla: dove non sono state costituite delle équipes o dove non è stata convocata nemmeno una riunione.

Ci sono sportelli per l’ascolto nei quali non si è recato nessuno, anche forse perché sono stati collocati all’interno delle curie.

Ci sono diocesi, ed è un dato clamoroso, che non sono riuscite a trovare in mesi un attimo di tempo per rispondere al questionario i cui risultati sono stati presentati giovedì scorso.

Insomma, c’è un’ampia porzione dell’istituzione che non ha preso sul serio la questione e che non intende attivarsi per combattere il fenomeno.

Gli altri limiti riguardano le attività formative.

Primo limite: a queste iniziative partecipano pochi preti. Il report riferisce di 4.766 sacerdoti partecipanti a incontri formativi su questo tema nel 2021.

A parte il fatto che questo dato comprende probabilmente anche coloro che hanno partecipato a più di un’iniziativa e anche dando per assodato che in alcune diocesi non si è svolta alcuna attività, non possiamo nascondere che si tratti di numeri esigui.

I preti diocesani italiani sono ancora più di 30.000 e quindi almeno l’85 per cento di costoro non si è avvicinato ad alcuna attività formativa sul tema degli abusi.

E’ assai probabile che per tantissimi di loro, malgrado la sollecitazione dei superiori, partecipare alle serate formative sugli abusi clericali non sia stata precisamente una priorità.

Secondo limite: il clero giovane presenta spesso un profilo problematico. Un amico sacerdote coinvolto in queste attività mi ha riferito della difficoltà di coinvolgere negli incontri i preti giovani, cioè under-40.

Questa notizia genera preoccupazione soprattutto se incrociata con un’altra riferita nel rapporto e relativa al fatto che i soggetti “trentenni” indicati nelle denunce raccolte dagli sportelli come autori di presunti reati sono ben il 19 per cento.

Moltissimi se si considera che l’età media dei presbiteri italiani supera i 60 anni e che i preti con meno di quarant’anni sono solo il 10 per cento del totale.

Dunque, la Chiesa ha un problema con le sue ultime leve di sacerdoti che si rivelano meno sensibili alla formazione antiabusi e con una percentuale di indiziati di reati sessuali molto superiore alla media.  

Soltanto prevenzione?

Il terzo limite è quello più grave e riguarda proprio la scelta strategica di investire solo nella prevenzione, senza cambiare di una virgola il funzionamento dell’istituzione e soprattutto le “regole di ingaggio” del personale clericale.

L’efficacia della prevenzione in questo campo è infatti molto ridotta: qualcuno può davvero credere che un abusatore venga scoraggiato a cambiare comportamenti perché ha frequentato un corso di formazione per prevenire gli abusi?

Immaginarlo equivale a pensare che un mafioso venga possa essere convinto a disassociarsi dalla criminalità organizzata dopo aver partecipato a una lezione antimafia di don Luigi Ciotti.

Nel migliore dei casi gli incontri formativi ribadiscono quello che tutti i preti già sanno e cioè che la Chiesa non vuole più guai su questo terreno e che, a differenza di quanto avveniva in passato, se si vede un confratello in atteggiamento sospetto conviene denunciarlo o almeno procurarsi un alibi solido se non si vuole essere accusati di complicità e connivenza.

Nel peggiore dei casi, le iniziative di prevenzione servono ai potenziali abusatori (individui già immersi nella bugia e nella negazione) ad apprendere che il livello di sorveglianza si è alzato e che dovranno usare misure più ingegnose per sottrarvisi.

uL’impegno nella prevenzione serve anche alla chiesa per dotarsi di una robusta giustificazione nei casi in cui gli abusi poi si consumino. Il ragionamento dei vertici ecclesiali suona così: “noi abbiamo fatto tutto il possibile per prevenire, se il singolo prete alla fine ha sbagliato la colpa è solo sua”.

La formazione

Per affrontare sul serio la questione degli abusi clericali, qui come altrove nel mondo, la Chiesa deve avviare una riflessione seria e spietata sui percorsi formativi del clero, sul rapporto dei seminaristi e dei sacerdoti con la sessualità e l’affettività, sulla disciplina del celibato obbligatorio.

Le radici del problema riguardano questioni come la solitudine, l’immaturità sessuale, l’anaffettività, il prevalere di una mentalità ottusamente legalitaria che oscura la percezione della reale sofferenza altrui, la convivenza con un regime permanente di segreti e menzogne.

Per affrontare tutto questo le pur apprezzabili iniziative di prevenzione servono a poco o a nulla. Ma questo nelle fila del clero e ai piani alti della Chiesa lo sanno tutti.

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