Il piano del governo di aprire i centri in Albania entro il prossimo 20 maggio in vista delle elezioni europee, previste dal 6 al 9 giugno, è ottimistico e difficilmente realizzabile, se si considerano le difficoltà pratiche e giuridiche a cui dovrà far fronte per una effettiva operatività delle strutture. I centri per migranti previsti dal protocollo Italia-Albania, firmato dalla premier Giorgia Meloni e dall’omologo Edi Rama il 6 novembre 2023, dovrebbero accogliere le persone che vengono salvate dalle navi delle autorità italiane nelle acque internazionali, in attesa di valutare la domanda di asilo o del rimpatrio.

L’avviso di manifestazione di interesse, come già raccontato da Domani, del valore di quasi 34 milioni di euro annui ha chiarito le funzioni delle tre strutture che verranno costruite sul territorio albanese: due avranno le funzioni di hotspot, una quella di centro di permanenza per i rimpatri.

Tutta la gestione è in mano alle autorità italiane, che dovranno affidare la struttura a società e cooperative che operano in Italia e inviare i contingenti italiani per il controllo interno. Ma il tentativo di creare luoghi di esternalizzazione delle frontiere non è poi così semplice: sono operazioni da milioni di euro di fondi pubblici che devono seguire determinate procedure, anche se del tutto in deroga, e che potrebbero non entrare in funzione a causa dei ricorsi giudiziari.

Una prospettiva che tuttavia non è stata totalmente esclusa dall’amministrazione, che ha previsto periodi di temporanea inattività dei centri per la mancanza di migranti. Periodi in cui si dovranno comunque coprire le spese per garantire il mantenimento delle strutture.

Nessuna gara

Non è stata indetta una gara pubblica con i tempi e le garanzie previste per appalti milionari, ma una procedura negoziata, «per ragioni di estrema urgenza sussistenti» di cui però non sono stati forniti dettagli, se non la necessità di attuare il protocollo «in conformità ai tempi e agli adempimenti che risultano necessari per rispettare» gli impegni assunti.

È l’assenza di motivazioni e di riferimenti legali a suggerire il movente politico, che porta il governo ad aprire i centri in tutta fretta.

Anche se derogare alle norme del codice degli appalti, che di fatto dovrebbero garantire la trasparenza su come vengono spesi i soldi pubblici, non è una prerogativa dei centri albanesi. Secondo il rapporto di ActionAid “Trattenuti”, per i cpr italiani si è spesso usato lo strumento della proroga alla scadenza dell’appalto.

Le prefetture hanno prorogato l’affidamento dei centri fino a oltre 700 giorni, cioè due anni. «Il caso della gestione dei cpr sembra configurare una tipica situazione in cui la proroga rappresenta un “ammortizzatore pluriennale di inefficienze”», si legge nel rapporto.

Regalo ai privati

Non ci sono ancora novità sull’esito dell’avviso pubblicato dalla prefettura di Roma con scadenza il 28 marzo. Nonostante la fretta, non è chiaro se si siano presentate società o se l’avviso sia andato deserto. Entro quella data gli operatori economici interessati avrebbero dovuto presentare la documentazione.

Enti profit o no profit che devono avere un fatturato nel settore per gli ultimi tre esercizi di almeno 5 milioni di euro e che vedono in questo appalto un margine di guadagno nettamente superiore rispetto a quelli italiani, nonostante il costo della vita in Albania sia inferiore. Anche se, in Italia, alcune di queste società e cooperative, come dimostrano inchieste giudiziarie, hanno agito in violazione dei capitolati d’appalto e dei diritti delle persone recluse. Perché da questi centri le persone non potranno uscire.

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