La destra al governo ha gettato la maschera di moderazione, indossata giusto qualche mese per lasciar passare un messaggio rassicurante. Con il decreto migranti, ribattezzato Cutro, l’esecutivo torna al vecchio modello: il contenuto del provvedimento che di fatto ripristina i vecchi decreti sicurezza di Matteo Salvini, mentre continua a umiliare il parlamento con una serie di voti di fiducia. Nel pomeriggio di mercoledì, i deputati l’hanno votata per l’ennesima volta su un testo voluto dalla centrodestra, sotto l’impulso della Lega.

Anche al prezzo di sfidare la moral suasion del Quirinale. Più di qualcuno a Montecitorio, appena sarà varata la nuova legge, sposterà lo sguardo verso il Colle per capire se il Presidente Sergio Mattarella muoverà qualche rilievo su un pacchetto di misure che riporta indietro le lancette dei diritti. La strategia della Lega ricalca il pensiero di Salvini: agitare la propaganda, spingendola al limite. Addirittura con una forzatura sul nome: il decreto Cutro non ha nulla a che fare con la tragedia avvenuta sulle coste calabresi a fine febbraio.

«Non lo trovo rispettoso chiamarlo così, non è rispettoso di quel luogo e di quei morti. Si potrebbe chiamare, per la continuità che esprime, decreto sicurezza-ter», ha sintetizzato la deputata del Pd, Rachele Scarpa. Dietro la propaganda c’è una strategia politica precisa: stringere ulteriormente le maglie sulle politiche migratorie, non tanto per arginare gli sbarchi, ma per aumentare sempre di più il numero degli irregolari. E creare un’emergenza che non c’è.

Emergenza che non c’è

La relazione di minoranza alla Camera, predisposta dal deputato di +Europa Riccardo Magi, spiega bene la situazione: «La popolazione straniera in Italia all’1 gennaio 2022 è di 5 milioni e 194mila residenti. In quattro anni, è aumentata di meno di 200mila unità», quindi si legge nel documento «su una popolazione di quasi 60 milioni di abitanti, si tratta di cifre del tutto gestibili».

Da qui la necessità delle destre di creare delle sacche di irregolarità. Come? Abbattendo le politiche di accoglienza. Il caso più noto è quello della protezione speciale, che sarà abolita. Ma la galleria è ampia: viene limitato il diritto di fare ricorso all’autorità giudiziaria ordinaria contro la decisione della commissione territoriale, che si pronuncia sulla richiesta di asilo. In sostanza chi si oppone non potrà avere la documentazione integrale, perché l’avvocato incaricato potrà visionare solo la videoregistrazione, allegata all’istanza dello status di rifugiato.

E c’è poi il cambiamento del ruolo degli hotspot, che non saranno solo luoghi per l’identificazione: al loro interno sarà possibile valutare la richiesta di asilo in maniera accelerata. Tuttavia, durante l’esame della domanda le persone restano in un limbo: non possono essere considerate detenute, in quanto sarebbe necessaria la convalida del fermo di un magistrato, ma di fatto non possono allontanarsi dagli hotspot. «Si continuano a creare ad arte delle zone grigie», ha spiegato Magi. Così diventa più facile gridare all’emergenza alla prima notizia di cronaca che coinvolge un migrante, cercando di portare voti a casa. La storia politica di Salvini è un insegnamento in tal senso.

Al fianco dell’aspetto tecnico della legge c’è un risvolto politico sostanziale, che non mira affatto a risolvere la vicenda. Sul livello della propaganda si ritrova ancora l’inasprimento delle pene per gli scafisti, che rischiano 30 anni in caso di naufragio, all’insegna della caccia iniziata lungo il «globo terracqueo», secondo la definizione usata dalla premier Meloni.

A colpi di fiducia

Se da un lato vengono affondati i diritti dei migranti, viene assestato un ulteriore colpo alle prerogative del parlamento. Dopo il rovescio sul Def, il governo si è ulteriormente irrigidito, blindando al massimo i vari passaggi. Sul decreto è stata necessaria la fiducia non tanto per l’ostruzionismo delle opposizioni, ma per le diatribe nella maggioranza che hanno rallentato l'iter: al Senato si è andati per le lunghe a causa dello scontro tra Lega e Fratelli d’Italia, che ha visto prevalere le istanze leghiste.

Si tratta della decima fiducia posta a Montecitorio, la tredicesima in totale dall’inizio della legislatura. Un ritmo che entro la metà del mese è destinato ad aumentare: è data per certa la blindatura di altri due provvedimenti, il decreto sul Ponte dello Stretto in esame alla Camera e il provvedimento contro il caro-bollette, attualmente al Senato. Così, a sette mesi dall’insediamento si arriverà a 15 voti di fiducia, con una media superiore a due al mese.

Viene sostanzialmente eguagliato, per il momento, il record del Conte bis, che ha viaggiato a una media di 2,25 voti di fiducia, avendo come motivazione la gestione delle prime ondate di pandemia. Il governo Meloni si era invece presentato come politico e omogeneo, ben diverso rispetto ai precedenti. Riecheggiano ancora le accuse verso i predecessori a Palazzo Chigi, che ricorrevano al mix di decreti e fiducia.

«A ogni piè sospinto l’attuale presidente Meloni ricordava che la decretazione d’urgenza era eccessiva ed era necessario arrivare a una discussione sui provvedimenti con l’ordinario percorso», ha ricordato il deputato di Alleanza verdi-sinistra, Filiberto Zaratti. La realtà ha presentato il conto: la premier sta facendo anche peggio, perché per placare le tensioni interne deve silenziare gli eletti. E finisce così per spedire in soffitta la promessa fatta a gennaio al presidente della Camera, Lorenzo Fontana, di avere un maggiore riguardo per le prerogative dei deputati.

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