Non c’è bisogno di scomodare i discorsi del caminetto di Franklin Delano Roosevelt, che negli anni Trenta si rivolgeva alla popolazione degli Stati Uniti per descrivere, alla radio, l’operato della sua amministrazione. Ma l’obiettivo di fondo era lo stesso perseguito oggi dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni: aggirare le domande dei giornalisti e ridurre ai minimi termini il loro ruolo. Ogni virgola deve essere trasmessa nel rispetto dei desiderata della leader. La storia insegna che si tratta di una tentazione antica. Così, nel primo maggio del decreto lavoro vergato dal governo, Meloni ha forzato il concetto di monologo promozionale, sotto forma di video, senza alcuna possibilità di un contraddittorio.

L’iniziativa ha destato sorprese negli uffici governativi. La ministra del Lavoro, Marina Elvira Calderone, era pronta a recarsi in sala stampa al termine del consiglio dei ministri, anche senza la partecipazione di Meloni. I vertici di palazzo Chigi hanno imposto il silenzio, facendo sapere che ci avrebbero pensato loro a costruire la narrazione pubblica del decreto. Un modus operandi che si sta consolidando.

L’arrivo di Mario Sechi nelle vesti di capo ufficio stampa alla presidenza del Consiglio ha portato al totale accentramento delle operazioni e la cosa ha ulteriormente alienato le simpatie - si fa per dire - degli altri componenti dello staff.

Sechi tiene le redini e detta i tempi, trasformandosi nell’ombra della premier nonostante circolino voci opposte secondo cui avrebbe un ruolo non molto centrale. Insomma non è solo il guardarobiere, come i più maligni lo avevano ribattezzato dopo che a Londra aveva retto il cappotto di Meloni, accaldata dall’ira per il mancato voto sullo scostamento di bilancio alla Camera.

Asse Sechi-Longobardi

Da quando l’ex direttore dell’Agi ha preso tra le mani la tolda di comando a palazzo Chigi, esattamente a inizio marzo, c’è stata solo una conferenza stampa. Si tratta di quella disastrosa organizzata a Cutro. Da allora zero giornalisti tra i piedi, niente domande scomode.

O meglio niente domande proprio, giusto quelle inevitabili negli appuntamenti internazionali, come quello del Regno Unito con il premier britannico Rishi Sunak. Ma la mano che traduce la visione di Sechi è quella di Tommaso Longobardi, l’uomo dei social (per 80mila euro all’anno), autore materiale del video di tre minuti realizzato insieme al team che guida. La versione messa in giro è quella di un’idea estemporanea ma la tesi non convince molto, vista l’accurata pianificazione dei dettagli affidata proprio a Longobardi. L’inedito asse Sechi-Longobardi è il fatto nuovo nell’inner circle di Meloni.

La linea è quella della comunicazione dall’alto, verticale, per dirla in termini scientifici. La premier parla e il pubblico ascolta, così da poter infiocchettare qualche bugia. L’esempio di scuola riguarda la frase sul «taglio delle tasse più importante da decenni». Parole che hanno innescato la reazione puntuta di Matteo Renzi: «Meloni non ha litigato solo con la politica. Ha litigato prima di tutto con la matematica».

Il video-spot sul dl lavoro è il modello potenziato degli «appunti di Giorgia», sperimentato peraltro prima che Sechi sbarcasse a Palazzo Chigi. Insomma, un giornalista che vuole scansare i giornalisti non si sa se per fastidio verso i colleghi o scarsa fiducia nella leader di Fratelli d’Italia, visto che le domande spesso le fanno perdere la parlantina sciolta.

Più di Renzi e Conte

Nemmeno i predecessori più ossessionati dall’immagine si erano spinti a tanto. Al confronto, i tempi di Renzi erano un idillio con la stampa. Il suo portavoce e stratega, Filippo Sensi era l’uomo che sussurrava ai cronisti, forgiando l’immagine dell’allora rottamatore, fornendo le veline - o gli spin, per essere più politicamente corretti - costruite ad hoc. D’altra parte, Renzi da presidente del Consiglio faceva in modo di apparire un pizzico più dialogico con i cittadini: su Twitter animava il suo hashtag #matteorisponde, raccogliendo delle domande degli utenti – e scegliendo sempre quelle non ostili - ma quantomeno non c’erano monologhi in Meloni-style.

L’attuale premier è molto distante dallo stile di Giuseppe Conte, che ha plasmato l’immagine di leader rassicurante con la comunicazione personalizzata durante le prime ondate di Covid-19. Dopo le dirette Facebook, l’avvocato di Volturara Appula ha sperimentato il confronto con i cronisti da remoto per evitare contatti e quindi contagi.

Il presidente del Consiglio aveva affidato la regia al portavoce Rocco Casalino, che pianificava i minimi dettagli, a cominciare dall’orario, sempre corrispondente a quello delle principali edizioni dei telegiornali per avere una maggiore eco. Quando sono riprese le conferenze stampa in presenza, la scenografia era curata in ogni angolatura. Non certo l’approssimazione vista a Cutro con l’attuale governo.

Così la presunta continuità di Meloni con la rotta tracciata da Mario Draghi è evaporata definitivamente anche sul rapporto con i cronisti. Non che l’ex premier fosse loquace con i giornalisti, centellinando le conferenze stampa. Ma sui provvedimenti più caldi, dai decreti Aiuti a quello sul Pnrr, affrontava le domande. Anche quelle meno gradite che gli hanno causato qualche scivolone.

© Riproduzione riservata