Le elezioni regionali di domenica in Sardegna e fra due settimane in Abruzzo evidenziano i tratti di fondo su cui deve misurarsi la politica italiana.

Primo, nel paese lo spazio per un’alternativa, vincente, a questo governo esiste. C’è tra le forze sociali, nel sentire dei cittadini, sulle grandi questioni che vanno dall’Europa all’ambiente, alla sanità e alla scuola pubblica, alla dignità del lavoro, ai diritti civili.

E, proprio perché la strada si può percorrere, maggiore è la responsabilità dei partiti di opposizione, tutti (il Pd è oggi la forza più consapevole).

Secondo. La coalizione delle destre è tutt’altro che granitica. La professione di unità dei suoi tre leader sul palco in Sardegna, mercoledì, suonava talmente ostentata da apparire una excusatio non petita.

Il punto è che le liti interne alla coalizione non sono dovute solo alla cattiva amministrazione (come in Sardegna) o a spartizione di posti. Dietro c’è una contesa su due questioni capitali: le riforme istituzionali e la collocazione internazionale.

Alla luce di quel che sta accadendo non è affatto detto, ad esempio, che lo scambio fra l’elezione diretta del premier, cara a Fratelli d’Italia, e l’autonomia differenziata, voluta dalla Lega, reggerà nei prossimi mesi.

Se le opposizioni agissero di concerto, dalla battaglia contro l’autonomia differenziata fino alla possibile convergenza sul modello tedesco (che con il cancellierato e il proporzionale può tenere insieme governabilità e rappresentanza), su questo potrebbero mettere in scacco la maggioranza.

Atlantismo ed europeismo

Quanto alla collocazione internazionale, qui il conflitto interno alla destra è potenzialmente ancora più grave. Giorgia Meloni ha fondato la sua ascesa sulla fedeltà atlantica e il sostegno all’Ucraina, e su una certa intesa con Ursula von der Leyen.

Ma Matteo Salvini mantiene un legame esplicito con Vladimir Putin. In prospettiva, e ancora di più se vincesse Donald Trump in Usa, l’Europa è destinata a integrarsi maggiormente, se non altro per creare una difesa comune contro l’espansionismo russo.

Quanto a lungo Meloni potrà continuare a mantenere un alleato e un vicepremier putiniano al suo fianco? Senza contare che le ambiguità su questo ci sono anche in Forza Italia, in lei e nel suo stesso partito. Quanto a lungo potrà continuare a intendersi con Viktor Orbán? Sarà disposta la coalizione delle destre nazionaliste a cedere sovranità per costruire la difesa comune?

L’Italia insomma aderirà con convinzione al modello europeo, o saremo il cavallo di Troia della visione putiniana? Il governo Meloni non è in grado di dare una risposta convincente. Anche nelle opposizioni, certo, non mancano ambiguità. Ma sono minori.

Se non altro perché il Pd non ha mai avuto dubbi, né sbandamenti, a differenza di Fratelli d’Italia. E lo stesso vale per i centristi, a differenza di Forza Italia. E va riconosciuto che gli stessi Cinque stelle, che sbandamenti ne hanno avuti, sono a conti fatti più europeisti della Lega.

È indubbio però che qui c’è un nodo cruciale. Se si andrà su due schieramenti, il centro-sinistra deve essere quello per la maggiore integrazione europea, per un’Europa federale (o gli Stati Uniti d’Europa) che sia capace di fare politiche ambientali, contro le disuguaglianze, di innovazione e di difesa, in modo da sostenere il nostro modello sociale e anche la nostra libertà.

Il Pd di Elly Schlein è la naturale guida dell’opposizione, su questo, specie se saprà guardare l’orizzonte e non si perderà in polemiche di corto respiro. Dal voto in Sardegna e in Abruzzo fino alle elezioni europee, la strada per l’alternativa è aperta.

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