Non si può dire a palazzo Chigi sia piaciuto il paragone del premier con Francesco Schettino, il comandante della nave Costa Concordia che sconta 16 anni per aver abbandonato natante e passeggeri nel corso del naufraugio del 2012 davanti all’Isola del Giglio in cui persero la vita il 32 (i feriti furono 157). «Draghi torni a bordo», intimava ieri dalla prima pagina Il Giornale, in singolare – ma neanche troppo – stereofonia con Il Fatto, che a sua volta in prima tuonava «Draghi salga a bordo! Ma lui mette il broncio».

Il mondo, peraltro, è piccolo: quella frase fu rivolta via radio al marinaio in fuga da Gregorio De Falco, all’epoca capo della sezione operativa della Capitaneria di Livorno ma oggi senatore, eletto con i Cinque stelle poi finito nel gruppo Europeisti-Maie-Centro Democratico, oggi non ricandidato e in attesa di tornare ad indossare l’uniforme in forza al comando logistico della Marina Militare di Nisida. Per di più De Falco, che pure è stato critico con l’ultimo governo, a Draghi ha votato anche l’ultima fiducia, quella fatale del 20 luglio. Oggi il senatore parla di «ossessione» a proposito di quella sua frase (letterale: «Torni subito a bordo, cazzo») contro Draghi; piuttosto a lui è Giuseppe Conte che sembra il capitano Queeg del film L’Ammutinamento del Caine, l’indimenticabile Humphrey Bogart troppo preda delle sue fobie per tenere il comando della sua nave.

«Sereno distacco»

Citazioni incrociate a parte, ieri Draghi ha visto di buon mattino le due prime pagine ma non si è lasciato sfuggire alcun commento con i suoi collaboratori. Che infatti riferiscono il suo «sereno distacco» dalle beghe e dagli attacchi delle forze politiche, e la sua ferma intenzione di non farsi trascinare dalla campagna elettorale: né da quelli che lo hanno mandato a casa né dai piccoli fan che giurano di combattere la crociata in suo nome, come ha fatto capire dal discorso inaugurale del Meeting di Rimini.

Comunque da palazzo Chigi, in insolito surmenage comunicativo, viene fatto filtrare un lavoro «senza sosta» sull’attuazione delle riforme. Per fare il punto, il sottosegretario Roberto Garofoli ha presieduto una riunione tecnica con i capi di gabinetto dei ministeri. Come replica indiretta a chi accusa il governo di aver tirato i remi in barca, lì sono vengono ricapitolati numeri significativi: dal 13 febbraio 2021, cioè dalla nascita del governo, sono stati 1260 i provvedimenti presi, 129 quelli mancanti dei 679 ereditati dai precedenti esecutivi della legislatura, e invece 58 su 313 quelli relativi alla legislatura precedente. La contabilità delle emergenze: 277 norme da adottare su 732. L’intenzione, viene spiegato informalmente, è «ridurre il più possibile i provvedimenti arretrati relativi alla legislatura che sta per concludersi».

Palazzo Chigi, assediato dalle richieste di darsi una mossa soprattutto di quelli che lo hanno fatto cadere, assicura che farà la sua parte. Ora è quella di varare le nuove norme per distribuire aiuti alle imprese e alle famiglie. Un budget fra i cinque e i sette miliardi. Soldi che si troveranno senza ricorrere allo scostamento di bilancio che chiede Matteo Salvini ma non Giorgia Meloni: «Sarebbe assurdo scassare i conti, non rispetto al prossimo governo ma rispetto al paese», viene ancora spiegato.

Letta: facciamo presto

Il Pd attacca le società energetiche che non hanno ancora versato l’imposta sugli extra profitti. Ma intanto il segretario Letta chiede un intervento «rapidissimo» sul caro bollette. «Facciamo presto», dice da Vicenza. Dal Nazareno viene rincarata la dose: «Con le aziende che rischiano di chiudere e le famiglie preoccupate dall’impennata dei prezzi ci devono spiegare a cosa servono le sfilate dei leader da Draghi. A maggior ragione di quelli che lo hanno fatto cadere».

Tutti hanno fretta, perfino Salvini, uno di quelli che hanno mandato a casa il governo, che ora invece da Porta a Porta dice che «il governo è in carica», «può fare quello che vuole da domattina. Per almeno per altri due mesi Draghi sarà presidente del Consiglio e il prossimo governo non si insedierà prima di fine ottobre. È pagato per difendere l’interesse nazionale».

Attenti al decreto

Ma sui provvedimenti all’orizzonte resta l’incertezza. Fino alla settimana prossima il governo non si muoverà, in attesa di conoscere l’entità delle risorse disponibili. Intanto è in corso la riflessione su quale provvedimento ospiterà le nuove norme. Due le ipotesi: la prima è un emendamento al dl Aiuti bis che deve essere approvato in parlamento, a partire dal Senato, proprio la prossima settimana e che deve essere convertito prima del voto. L’altra è un nuovo decreto da varare già la prossima settimana, e che potrebbe essere convertito dal prossimo parlamento.

L’emendamento al dl Aiuti bis è l’ipotesi meno probabile. Resta in ogni caso il tema della conversione. Il voto di fiducia è escluso per un governo in carica per il disbrigo degli affari correnti. Secondo il Pd «serve un’intesa» e dunque le forze di maggioranza dovranno riunirsi e assicurare l’ordinata approvazione dei provvedimenti. Intanto garantendo il numero legale alle camere. Dall’opposizione Meloni sparge rassicurazioni: «Ci troviamo in parlamento lunedì e proviamo ad approvare delle norme che permettano ai cittadini di avere una situazione sostenibile».

Del resto nessuna forza politica ha interesse a fare scherzi che potrebbero abbattersi come boomerang nella campagna elettorale. Eppure ieri il ministro pentastellato Stefano Patuanelli ha lamentato che «a oggi non conosciamo le intenzioni di palazzo Chigi su un decreto a sostegno di imprese a famiglie».

Schermaglie, o mani messe avanti causa qualche difficoltà di gestione? Per alcuni partiti non sarà facile convocare i propri eletti a Roma, anche solo per il voto. Quelli che sono impegnati nella rielezione dovranno abbandonare agli avversari i territori contesi. Ma il rischio è che ci sia una parte di renitenti alla leva: quelli che non sono stati candidati e che non hanno voglia di far fare la parte degli eroi ai colleghi «salvati». Per palazzo Chigi il problema non esiste, nel senso che non è un problema di Draghi. Sarà tutto, e solo, dei partiti che lo hanno mandato a casa.

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