Non ci sono conferme ufficiali, anzi stando all’ufficialità fin qui ci sono solo smentite. Ma non così convincenti da cancellare la voce che circola con insistenza in queste ore nella capitale, e che è finita già sulle cronache romane: il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti sta valutando le dimissioni anticipate per candidarsi alle politiche del 25 settembre.

Un approdo in parlamento, per lui, era scontato, alla fine del suo secondo mandato che sarebbe scaduto in coincidenza con il voto nazionale. Ma tutto questo era vero prima della caduta del governo Draghi. Ora l’accelerazione cambia il timing. E il presidente in queste ore sta valutando se dimettersi all’atto di accettazione della candidatura, una volta depositate le liste del Pd.

In realtà il cambio di vertice in regione potrebbe rallentare. Per legge Zingaretti potrebbe aspettare la proclamazione, quindi ottobre. Poi avrebbe novanta giorni per optare e altri novanta giorni per mandare al voto i cittadini del Lazio.

Sfumano le primarie

Ma Zingaretti non avrebbe intenzione di tenere i piedi in due scarpe, con il rischio di essere investito da una campagna di attacchi dei tanti avversari. Molto più probabilmente la sua scelta cadrà sulle dimissioni subito, cioè il 25 agosto, e questo consentirà di far tornare la regione al voto già a fine novembre o al massimo i primi di dicembre.

Una precipitazione che sicuramente metterebbe in difficoltà la destra, che in questo momento è concentrata sulla corsa nazionale. Fratelli d’Italia spera di espugnare il prossimo governo. Una eventualità concreta che “distrae” i suoi dalle altre preoccupazioni. Francesco Lollobrigida, il deputato papabile per la corsa alla presidenza, ormai punta a fare il ministro. Ricominciano a circolare nomi non di primissima fila, quello di Chiara Colosimo, emergente meloniana, e del manager Andrea Abodi.

Nel lato del centrosinistra invece le cose vanno meglio, ma non benissimo. Sfuma la prospettiva delle primarie, alle quali fin qui si erano candidati l’assessore alla sanità Alessio D’Amato e il vice di Zingaretti Daniele Leodori, assessore al bilancio. Circolava anche il nome dell’ex eurodeputato Enrico Gasbarra, il nome preferito dal presidente, anche se fin qui non ha mai detto una parola pubblica sulle sue intenzioni. Ma adesso, se Zingaretti si dimette, cambia la musica, soprattutto cambia lo spartito. «Decide Letta», tagliano corto in regione.

Il tavolo di coalizione

La discussione investe in queste ore i componenti del tavolo di coalizione, che si riunisce per individuare un programma, una coalizione e infine una candidatura «unitaria». Qui resta un po’ in ballo la questione dell’alleanza con i Cinque stelle, che nel Lazio sono già da tempo in maggioranza e in giunta. Fin qui nessuno ha chiuso le porte a Roberta Lombardi e compagnia.

Anche se lei, l’assessora alla transizione ecologica e digitale, che è stata la capofila dell’accordo giallorosso, è schierata solidamente a fianco di Giuseppe Conte e della rottura con il governo Draghi. Ma con la determinazione altrettanto solida di fare di tutto perché che il cataclisma al governo nazionale non porti conseguenze nella futura corsa per la regione. Confidando sull’esito ordinato delle primarie di coalizione che sabato si svolgono in Sicilia. Un esito tutt’altro che scontato visto che ieri Conte ha accusato il Pd di «dichiarazioni arroganti» verso il M5s e di fare «la politica dei due forni», e cioè di rompere a livello nazionale ma non a livello locale.

Il ruolo di Calenda

La regione Lazio, con una nota ufficiale, butta secchiate d’acqua sul fuoco: «Nessuna decisione» è stata presa, «Unica certezza è che non essendoci nella regione alcuna crisi politica, è da escludere la concomitanza delle elezioni politiche con quelle regionali».

Farà la differenza anche la scelta di Carlo Calenda, che non siede al tavolo della coalizione – lo ha abbandonato alle prime battute – e che nei mesi scorsi aveva applaudito alla candidatura di D’Amato. In queste ore il leader di Azione incrocia i ferri via Twitter con la sinistra Pd. Ieri ha cercato il frontale con il ministro Andrea Orlando, “reo” di essere stato beccato a “congratularsi” con un senatore grillino dopo il non voto alla fiducia a Draghi.

Orlando nega: «Non mi sono congratulato. Avevamo chiesto, tutto il Pd, di non annunciare il voto contrario e tenere uno spiraglio aperto. Ho detto al senatore M5s che speravo ci fosse ancora lo spazio per recuperare. Se tutti avessero svolto il tuo ruolo il governo Draghi sarebbe durato una settimana». La tenzone è andata avanti sul reddito di cittadinanza. I battibecchi fra i due non sono una novità. Solo che a ridosso del voto certificano che l’alleanza fra Pd e Azione non s’ha da fare.

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