«Bis». È bastato un monosillabo piazzato su un titolone del quotidiano Repubblica come appendice del bisillabo «Draghi», per mandare il Nazareno in agitazione di prima mattina. Perché fin qui, di fronte al minacciato strappo di Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio e il segretario del Pd, che negli scorsi giorni si sono sentiti proprio su questo tema, avevano risposto all’unisono escludendo appunto qualsiasi “bis” del governo:

«Questo è l’ultimo governo della legislatura del quale sono premier», aveva risposto ai cronisti Mario Draghi, per convincere i Cinque stelle del fatto che se escono dalla maggioranza il governo va a casa. E non pensassero neanche a uno strappo a metà, uno strappetto: «ll governo è nato con loro e non si accontenta di un loro appoggio esterno». Stesso spartito e stessa musica da Enrico Letta: «Il governo Draghi per noi è l’ultimo della legislatura».

Il fatto è che se in pochi credono alla rottura dei pentastellati, in pochissimi credono al voto in ottobre, in piena sessione della legge di bilancio. E neanche a un cambio a palazzo Chigi.

La legislatura si allunga

Semmai fin qui, prima della pulsione crisaiola grillina, l’argomento di confronto nelle stanze più riservare è stato quello della data delle prossime elezioni politiche. La scadenza naturale della legislatura cade fra marzo e aprile del 2023. Ma è circolata la voce di una pazza idea, attribuita all’entourage del premier con una presunta benedizione del Colle, di forzare al massimo le date possibili per arrivare fino a fine maggio, addirittura il 28. E questo per dare la possibilità a Draghi e ai suoi di decidere la tornata di nomine della prossima primavera: sono più di ottanta gli incarichi in scadenza nei consigli di amministrazione delle partecipate pubbliche. Enav, Enel, Eni, Leonardo, Poste e Terna quelle maggiori, ma anche Amco, Consap, Consip, Sport e Salute e Sogin. Fratelli d’Italia a più voci ha fatto sapere che considererebbe l’allungamento forzoso della legislatura «un colpo di stato». Lo stesso la Lega. Ma anche Letta non è dell’avviso. Giovedì, en passant, ha provato a chiudere la partita: «Io penso che le elezioni in aprile siano la cosa giusta».

Altro che voto anticipato, dunque. Però lo spauracchio del voto anticipato va comunque agitato per convincere i Cinque stelle a non fare colpi di testa. E non infilare Draghi nel rompicapo di un possibile rimpasto di governo, e la Lega nel dilemma di seguire a ruota l’ex alleato grillino fuori dal maggioranza, eventualità contro cui in queste ore si batte il ministro Giancarlo Giorgetti.

Il segreto del segretario

Solo che giovedì sera, sul tardi, è successo che il segretario Pd, nella calca dei giornalisti a Bisceglie – così viene ricostruito al Nazareno – alla domanda sullo strappo M5s e sulle probabilità di un bis del governo, ha risposto «Vedremo». E così la mattina di ieri viene diramata l’interpretazione ufficiale: «Ha semplicemente detto “vedremo” ed è stato interpretato come una apertura» e invece «non c’è nessun cambiamento di linea. Questo governo rimane l’ultimo della legislatura per noi. Ad oggi il tema di un’uscita del 5S non c’è perché hanno votato la fiducia. Qualora dovessero esserci gesti istituzionali, che ovviamente non auspichiamo, affronteremo la situazione».

Il guaio è che questo episodio, notato dalla stampa, ha gonfiato le vele a grillini barricaderi, che da ieri hanno cominciato a sostenere nei conciliaboli che si può uscire dal governo senza provocare la catastrofe minacciata dagli alleati. Nulla è ancora deciso. Lunedì alla camera M5s si asterrà sul testo del dl aiuti, su cui però ha già votato la fiducia. Ma il decreto la prossima settimana sarà calendarizzato al senato, e lì il voto non sarà in due tempi come nell’altra aula. Lì un no o un’uscita dall’aula – possibilità pure ventilata – provocherebbe in ogni caso la salita di Draghi al Colle. Da palazzo Madama qualche no grillino comincia a essere annunciato. Il senatore Alberto Airola, pasdaràn dell’uscita dal governo, ieri ha spiegato che per lui il dl aiuti «è invotabile».

Conte cerca di calmare i suoi. Ieri, anche lui da Bisceglie, anche lui ospite della maratona digitale Digithon 2020, ha buttato acqua sul fuoco: «Io sono molto sereno perché non sto dicendo che faccio cadere il governo se non c’è il Ponte di Messina o se non si assumerà trecento esperti per il Pnrr», «il M5s è una forza che a volte può sembrare eccentrica, ma che ha ben chiaro cosa significa avere una responsabilità nei confronti degli italiani».

Sul fronte della ricucitura ieri si è distinto l’attivismo di Art.1, per il quale la fuoriuscita dalla maggioranza di M5s sarebbe un disastro, come per il Pd – che si troverebbe a coprire il fianco sinistro della maggioranza in solitaria – ma anche peggio. Vasco Errani e Arturo Scotto ieri hanno espresso apprezzamento e quasi entusiasmo per il documento che Conte ha consegnato a Draghi. «Contenuti politici molto condivisibili», per Scotto, perché quegli otto punti, secondo Errani, «non riguardano questo o quel partito politico, ma il paese. E su quei punti vogliamo provare a costruire un’iniziativa insieme al Pd, insieme ai Cinque Stelle, in parlamento, nel governo, nel paese». A patto però che i Cinque stelle restino in maggioranza.

Anche quest’anno molti pentastellati fra gli ospiti della festa nazionale di Art.1, a Bologna: il ministro Stefano Patuanelli, Fabiana Dadone, Alessandra Todde e Massimo Bugani; Conte, insieme a Letta, sarà poi ospite d’onore di una successiva festa a Roma, in autunno. Inviti già diramati e già accettati: nella convinzione che il governo sia ancora in piedi. Ma anche l’alleanza giallorossa.

© Riproduzione riservata