Negli ultimi tempi sì è fatto un gran parlare dell’aumento dell’occupazione in Italia. Nel terzo trimestre 2024, per la prima volta da quando viene misurata, questa avrebbe infatti superato i 24 milioni di unità e già il governo se ne fa un merito. Peccato, però, perché a ben guardare è poca cosa e non è tutto oro ciò che luccica
Negli ultimi tempi sì è fatto un gran parlare dell’aumento dell’occupazione in Italia. Nel terzo trimestre 2024, per la prima volta da quando viene misurata, questa avrebbe infatti superato i 24 milioni di unità e già il governo se ne fa un merito.
Peccato, però, perché a ben guardare è poca cosa e non è tutto oro ciò che luccica. Già nel 1959 – l’anno in cui è iniziata la rilevazione annuale dell’Istat – gli occupati erano 20.349.000, hanno raggiunto un massimo di 20.427.000 nel 1961 per poi diminuire costantemente fino al minimo di 18.976.000 nel 1972, tornare a salire fino al massimo di 21.623.000 del 1992, ridiscendere e poi risalire, fino al top di 23.109.000 del 2019.
In sostanza, in 65 anni, gli occupati in Italia sono stati sempre sopra i venti milioni, e negli ultimi vent’anni sopra i 23 milioni. Tuttavia, mentre nel 1959 erano il 54,7 per cento della popolazione in età lavorativa (sopra i 15 anni), nel 2004 erano scesi al 45,4 per cento, nel 2014 al 42,5 per cento e sono ora risaliti al 47 per cento. Insomma, si lavorava molto di più allora di quanto non si lavori adesso e 154mila occupati in più oggi non si può certo dire che fanno la differenza.
Gli occupati uomini, peraltro, erano 14.229.000 nel 1961 e da allora non sono mai stati tanti: quasi sempre sopra i tredici milioni, sono oggi 13.878.000. Le donne occupate, invece, sono aumentate di numero: per lungo tempo sopra i 5 milioni, hanno superato i 7 milioni nel 1986, hanno raggiunto i 9 milioni nel 2006 e ora sono più di 10 milioni. Tra gli uomini, la quota di occupati sul totale in età lavorativa non ha più superato il 57,3 per cento del 2007, mentre tra le donne la quota è stata in lento aumento, fino al 38,7 per cento di oggi.
Ai margini dell’Europa
Sono dati che ci pongono ai margini dell’Europa, dove i tassi di occupazione tanto per gli uomini che per le donne sono molto più alti. Perché sono gli alti tassi di inattività che persistentemente caratterizzano il mercato del lavoro italiano: più di 10 milioni di uomini e più di 15 milioni di donne sono inattivi.
Dal 2019, sono tornati debolmente ad aumentare gli occupati giovani, tra i 15 e i 34 anni di età, di 270mila unità. Gli adulti tra i 35 e i 50, invece, sono diminuiti di ben 600mila unità, mentre gli over 50 sono oggi ben un milione e centomila unità in più. In sostanza, quindi, è l’occupazione degli adulti con esperienza che è aumentata. I dipendenti sono cresciuti di più di un milione (sono oggi quasi 19 milioni), mentre sono calati, nel complesso, gli indipendenti, particolarmente tra i lavoratori autonomi (sono 5.175.000, centomila in meno). Tra i dipendenti, tuttavia, ben 2,8 milioni sono a tempo determinato (e la metà sono giovani) e 3,3 milioni hanno contratti a tempo parziale (i lavoratori a tempo parziale erano 4.384.000 nel 2019, sono oggi 330mila in meno). In sostanza, i lavoratori non precari, con contratto a tempo indeterminato, sono 16,1 milioni, mentre quelli a tempo pieno sono 20 milioni. Ovvero, i precari a tempo determinato sono quasi il 15 per cento, mentre quelli a tempo parziale sono il 16,8 per cento. Tempo determinato e tempo parziale prevalgono tra le donne.
Dei 24 milioni di lavoratori, 8,8 milioni hanno occupazioni qualificate e tecniche, 7,4 milioni hanno occupazioni impiegatizie, 5,2 milioni lavorano come operai e artigiani e ben 2,5 milioni hanno occupazioni non qualificate. La classe operaia e salariata compone quindi il 32 per cento della forza lavoro occupata, mentre il 30,7 per cento compone il cosiddetto ceto medio impiegatizio. E sono questi i ceti i cui salari sono fermi e i cui redditi sono andati riducendosi in valore reale negli anni. Una struttura di classe polarizzata che è cristallizzata da tempo e che vede la componente popolare – dei ceti bassi e medio-bassi – ancora maggioritaria.
Calano i salari
L’aumento recente dell’occupazione, peraltro, si accompagna a un’economia che non cresce, se non debolmente. Buona parte dell’aumento, è stato notato, è avvenuto nel settore delle costruzioni – gonfiato dagli effetti del Superbonus –, del turismo e dei servizi a basso valore aggiunto.
Ciò che favorisce l’aumento della domanda di lavoro, in quei settori, è il perdurare di livelli salariali bassissimi, per posizioni professionali a bassa qualificazione. Se è vero che la bassa crescita salariale è un tratto che contraddistingue l’economia italiana da circa tre decenni, gli andamenti dell’ultimo periodo, dopo la crisi energetica innescata dalla guerra in Ucraina, sono stati particolarmente deludenti anche in una prospettiva storica.
L’indice Istat delle retribuzioni contrattuali dal 2019 al 2023 è aumentato del 5,4 per cento; l’inflazione nello stesso periodo è stata pari al 16,2 per cento. Ciò implica che, in termini reali, i salari contrattuali si sono quindi ridotti in quattro anni del 9,3 per cento. Anche i salari “di fatto”, cioè comprensivi di straordinari, premi di produttività e quant’altro, sono aumentati di appena il 7,8 per cento, con una riduzione in termini reali del 7,2 per cento. La perdita del potere d’acquisto è stata dunque notevole e ciò senz’altro spiega la buona tenuta della domanda di lavoro, a fronte di salari sempre più bassi in termini reali.
In conclusione, è vero che l’occupazione tiene – soprattutto per la fascia d’età over 50 – ma è anche vero che ciò avviene in condizioni di peggioramento delle condizioni salariali, favorendo soprattutto i lavoratori uomini con livelli di qualificazione medio bassi, nelle professioni esecutive e degli operai e salariati.
Un quadro non proprio soddisfacente, che vede giovani e donne ancora svantaggiati, il che pone l’Italia ai margini dell’Europa. La nostra è un’economia in cui la produttività non cresce, in quel vasto corpo “molle” dei milioni di piccole imprese, e che riesce a galleggiare solo grazie a livelli salariali sempre più ridotti e a bassi livelli di investimento.
Come rilevato dall’ultimo rapporto Inapp, uscito nei giorni scorsi, la manifattura “tiene”, ma vi sono settori come quelli legati alla pubblica amministrazione, all’istruzione e alla sanità, dove il “deficit” occupazionale rispetto all’Europa si fa drammatico (-8,6 per cento), così come nelle professioni a elevata specializzazione e tecniche, dove il divario con la Ue raggiunge i 3 milioni di unità. Un quadro non proprio roseo sul quale c’è ben poco da festeggiare: l’occupazione sale, sì, ma solo perché i salari sono fermi e l’economia non cresce. E il paese langue.
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