Durante la conferenza stampa sui risultati delle comunali Elly Schlein si dice «soddisfatta e fiduciosa» ma non pronuncia il nome di Giuseppe Conte. Né quello di Matteo Renzi che pure poco prima l’ha “avvisata” a proposito dei ballottaggi: «Sconsiglierei ai candidati (del Pd, ndr) di fare la questua per i voti grillini, il rischio è di perdere di più di quello che si ottiene. Io non lo farei». Il leader Iv parla di Ancona, dove la candidata Ida Simonella è sostenuta da Pd e Terzo Polo.

Per quella città, come per le altre sei che tornano al voto il 28 e 29 maggio, la segretaria Pd si appella a tutti «quelli che non vogliono far vincere le destre», quindi anche i Cinque stelle, che pure ad Ancona hanno preso il 3,6 per cento e in generale alle comunali non sono andati oltre il 5 per cento, tranne a Terni e Brindisi.

Invece Renzi più che a vincere nelle città si diverte a mettere zizzania fra Pd e M5s: «Da Bonafede, che era fuori da tutto e Conte lo ha piazzato al Consiglio della giustizia tributaria, poi la Vigilanza, ora la Rai», spiega, «la verità è che Conte è la stampella della Meloni. Prima o poi se ne accorgeranno anche quelli del Pd».

Una vendetta attesa

Per la verità “quelli del Pd” se ne sono accorti, anche se con i cronisti l’argomento è tabù. Se ne sono accorti in campagna elettorale, quando hanno provato inutilmente a far incrociare le agende di Schlein e Conte nelle piazze in cui si presentavano insieme. Se ne sono accorti nella vicenda del voto europeo sui soldi del Pnrr virati sugli armamenti, su cui – è la versione del Nazareno – i Cinque stelle hanno agitato una tempesta «sul nulla, abbiamo detto sì alla procedura d’urgenza ma siamo contrari all’utilizzo dei fondi per le armi». Se ne sono accorti soprattutto lunedì quando Alessandro Di Majo, consigliere Rai in quota Conte (Conte, non quota M5s: all’epoca i parlamentari avevano scelto un altro) si è astenuto sul voto per il nuovo melonianissimo ad Roberto Sergio.

Una scelta impartita il giorno prima da Conte da un’intervista alla Stampa: «Se fossi io al suo posto sospenderei il giudizio in attesa di capire i nuovi orientamenti», ha risposto alla domanda di Andrea Malaguti che gli chiedeva di «venature giallonere» della Rai, alludendo a un accordo con Giorgia Meloni. Quelle venature sono «scemenze», dice Conte. Che a Renzi fa replicare i suoi: «L’astensione in cda equivale a un no, l’ad designato dal governo è passato grazie al voto decisivo della presidente Soldi, da alcuni descritta come vicina a Renzi».

Obiezione non infondata. Resta il fatto che nell’ultimo mese Conte ha inaugurato uno stile nuovo con Giorgia Meloni, una specie di minuetto cortese. Primo passo il 25 aprile, quando «apprezza» le parole della premier sull’antifascismo. Secondo passo il 28, quando con lei stringe l’accordo per ripescare dal fiume l’ex ministro ed ex dj Alfonso Bonafede, e lo fa eleggere consigliere alla giustizia tributaria. Terzo passo l’8 maggio: all’uscita dell’incontro con Meloni sul presidenzialismo, apre «sul metodo». Quarto passo, siamo a lunedì: l’astensione sull’ad Rai targato Meloni.

Unire i puntini, dunque, e i passettini: dopo l’asse gialloverde e quello giallorosso, l’armocromista (politico) dell’ex premier ora consiglia il giallonero.

Sui vertici di viale Mazzini, poi, Conte consuma una vendetta lungamente attesa. Per la quale ha replicato lo schema applicato su Mario Draghi nel luglio del 2022: gli ha tolto la fiducia fingendo di non capire, o chissà capendolo, di aprire con sei mesi di anticipo la strada al governo delle destre. 

Lo stesso copione usato per l’ad nominato da Draghi, Carlo Fuortes: il giorno prima delle sue dimissioni ha parlato di «gestione disastrosa» anticipando di fatto la sfiducia del “suo” consigliere. Un momento, quello della rivalsa contro Draghi, i suoi uomini e i suoi “complici” del Pd, che Conte aspettava almeno dal novembre del 2021 quando aveva denunciato, in nome del «fuori i partiti dalla Rai» e del «no alla lottizzazione», l’esautoramento dal Tg1 del “suo” Giuseppe Carboni; per dimostrare l’emarginazione dovette anche “disconoscere” Simona Sala, direttrice Tg3, professionista di orientamento democratico ma gradita al M5s. Per rappresaglia comandò ai parlamentari di non andare più in tv. Ma l’autoeditto resse tre giorni: poi alla spicciolata i grillini rispuntarono nei talk.

Ora, con l’astensione benevola su Sergio, Conte spera di farsi risarcire per quello che Fuortes gli ha negato e cioè il ricollocamento di Carboni e della conduttrice Luisella Costamagna, un ruolo per Simona Sala e un upgrade per Claudia Mazzola, direttrice dell’Ufficio Studi Rai.

Dunque l’impegno per i ballottaggi può attendere. Tanto agli unici nomi grillini in corsa, il candidato sindaco di Brindisi e il candidato presidente del Molise, gli sventurati del Pd hanno già detto sì.

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