Enrico Fierro avrebbe potuto curarsi, fare qualche esame per tempo, e forse oggi, chissà, non mi troverei a scrivere queste righe. E invece che vedere i medici, ha passato l’estate a portare in giro per l’Italia uno spettacolo sulla vicenda di Mimmo Lucano, Riace Social Blues, con Cosimo Damiano Damato e Lucia Scarabino. 

Quando è arrivata la condanna di Lucano a 13 anni di carcere, Fierro era già in ospedale e non ha potuto scriverne per Domani, lui che, praticamente da solo nella stampa nazionale, aveva seguito quel processo assurdo con la dedizione di un giovane cronista anche in questa sua ultima avventura professionale, tra le pagine di Domani.

Perché Fierro credeva davvero che raccontare le cose serva a cambiarle. Un atto civile, molto più che un lavoro.

Era in ospedale, Enrico, ma da lì ha firmato, con Cosimo Damiano Damato, un articolo che condensava il loro spettacolo e difendeva Lucano. Perché oltre all’amore della figlia Rossella e degli altri quattro figli, forse l’unica cosa che poteva farlo stare meglio anche nelle condizioni terribili in cui si trovava era sapere che combatteva un po’ anche da lì, da un letto nel quale aspettava diagnosi sempre peggiori.

Quando qualcuno muore così, con mille sigarette di troppo e nessuna delle accortezze che poteva seguire per proteggersi, viene quasi da rimproverarlo, da arrabbiarsi per come ci ha lasciato quasi per un capriccio, per il rifiuto di seguire raccomandazioni responsabili.

Ma di fronte a chi sceglie non solo come vivere, ma anche come morire si può solo avere rispetto: Enrico non avrebbe mai concepito di concludere una vita sana, morigerata e passiva rispetto a quello che gli succedeva intorno.

Cause giuste e perse

Enrico Fierro ha scelto di vivere e morire sempre nella trincea delle cause più giuste che, senza eccezioni, erano anche quasi tutte cause perse. D’altra parte, era nato ad Avellino, nel 1951, aveva costruito la sua reputazione professionale come cronista impegnato in una crociata impossibile contro gli abusi e i soprusi di quella che, come fanno solo le persone del sud, chiamava “la mia terra”.

Che poi non era una terra specifica, perché nei decenni è stata l’Irpinia dominata da Ciriaco De Mita, soprattutto dopo il terremoto, e poi la Campania sotto l’influenza di Paolo Cirino Pomicino, bersaglio del celebre libro O Ministro di cui Fierro era uno dei tre autori, e poi ancora la Napoli che sperava potesse rinascere con il suo amico Luigi De Magistris.
Ma la sua terra era anche la Calabria bella e disperata, della quale Enrico continuava a  denunciare gli scandali ma anche celebrare una società civile e vitale, nella quale lui – che la vedeva con chiarezza a noi impossibile da Roma - non ha mai perso la speranza.

Fierro è stato un dirigente della Fgci, poi un sindacalista, e poi ancora un giornalista importante dell’Unità quando lavorare in quel giornale era una forma di militanza assai più che un lavoro.

Ci siamo incrociati molti anni dopo, al Fatto Quotidiano, quando Enrico era già in una fase avanzata della sua carriera, rispettato da tutti, anche dai bersagli delle sue inchieste, chiamato “il professore” da noi giovani giornalisti, ma completamente parallelo al circolo dei talk show e dei social dal quale passa oggi la celebrità. 

Lui aveva scelto altro, non cercava la visibilità effimera della tv, ma costruiva relazioni sul territorio, consumava copertoni e polmoni in giro per il sud, conosceva tutti, raccontava e si faceva raccontare, senza mediazioni e senza scorciatoie. 

Le nostre strade si sono incrociate di nuovo qui, a Domani, quando gli abbiamo chiesto di portare la sua esperienza e la sua umanità a questa giovane squadra.

Enrico ha iniziato con un entusiasmo non intaccato dagli anni, si è presentato con molte idee interessanti, qualche scoop, proposte sorprendenti (come una intervista al suo amico Renzo Arbore), sempre lo stesso avvio di comunicazione, “Ohi, Stefano”.

Tra i tanti pezzi che ha scritto in questo anno troppo breve del suo lavoro con Domani, ce n’è uno che spero resti la sua eredità e che venga studiato in qualche scuola di giornalismo superstite. Per l’anniversario del G8 di Genova, Enrico mi ha detto che poteva raggiungere l’ex carabiniere Mario Placanica, quello che aveva sparato il colpo che uccise Carlo Giuliani.

Qualcuno, anche in redazione, ha obiettato: perché dare voce a Placanica? La risposta sta nel pezzo di Fierro, uno dei più belli che abbiamo pubblicato su Domani, che in una pagina riesce a condensare due tragedie intrecciate, con il rispetto della vittima e la pietas verso lo sparatore, che si deve a lui come a qualunque essere umano.

Ecco, Enrico ha dimostrato in una carriera lunga e integerrima che per un giornalista l’indipendenza è prima di tutto una condizione dell’animo, una tensione verso la giustizia. E che quindi si può essere politicamente impegnati e intellettualmente indipendenti, aggressivi e implacabili con chi è potente e lo merita ma, al contempo, compassionevoli con chi è caduto.

Le vite dei giornalisti spesso si consumano con la stessa rapidità dei loro articoli. Quella di Enrico ha lasciato invece una traccia indelebile, perché ha fissato uno standard etico e morale per tutti noi che abbiamo condiviso un pezzo, breve o lungo, della sua storia umana e professionale.

Se per lui il giornalismo era questo sforzo civile costante, disperato ed eroico, com’è possibile che per qualcuno sia soltanto un lavoro per pagare il mutuo o guadagnare qualche follower?

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