Se c’è sempre più bisogno di Europa, perché la meta si allontana? A 78 anni dalla fine della grande guerra civile in Europa, da cui nel 1957 nacque la Ue, ora cresce il nazionalismo; abile truffatore, esso addebita alla Ue problemi legati invece al rifiuto degli stati di darle più poteri.

Così prevale chi s’oppone alla (obbligata) via dell’unione sempre più stretta. La contraddizione spiega i successi delle destre estreme e il loro accesso al governo, fino a poco fa impensabile.

La Ue subisce violente scosse, dall’aggressione russa all’Ucraina sull’uscio di casa, alla pressione migratoria, alle grandi contrapposizioni: fra formiche e cicale, est e ovest, sud e nord. C’è chi vuole una politica estera comune e chi la crede incompatibile coi vincoli Nato, chi vuole governi soggetti ai checks and balances liberali e chi, considerandoli inaccettabili, se vince alle urne vuole reprimere i diritti delle minoranze.

Serve un disegno complessivo, non soluzioni parziali, se perfino sulle cause ci si divide; per la sinistra emigra chi fugge da miseria e terrore sperando in una vita decente e in pace, mentre per la destra i migranti sono pedine del disegno di sostituzione etnica della sinistra, per snaturare i popoli europei.

La fine delle certezze citate da Mario Draghi nel recente commento sull’Economist si somma ai noti ostacoli al progresso civile ed economico della Ue, specie dell’Eurozona: un assetto di governo farraginoso, quasi inagibile, la mancanza di una politica estera unitaria, di un’unione fiscale – che postula più poteri e spese al centro, meno agli stati – nonché di una vera unione bancaria. Su tali temi Draghi s’era espresso anche nel 2015 da presidente della Banca centrale europea (Bce) nel rapporto “dei cinque presidenti”.

Assetti zoppicanti

L’acrobazia sarà più ardua per il necessario, graduale ingresso nella Ue dell’Ucraina e dei balcanici già “in coda”. Mantenere gli zoppicanti assetti attuali condurrebbe la Ue a morte, certa e veloce. Già paghiamo perciò pegno con la lentezza delle decisioni e della loro attuazione, le tragedie della migrazione, i paradisi fiscali nella Ue, l’incerta e tardiva difesa della concorrenza, il difficile governo della Bce nella lotta all’inflazione (negli Usa la Fed è avviata al successo); su temi più finanziari, la mancanza di un grande, liquido mercato per un titolo di debito sovrano europeo che funga da àncora a tutti i mercati.

Ne derivano le minori valutazioni delle azioni europee rispetto agli Usa e freni all’innovazione. Come un saltatore che “passa” le quote inferiori per entrare in gara su quelle più alte, la Ue ora chiede a Draghi un rapporto sulla competitività europea; non inganni l’apparente tecnicismo del mandato, la sintesi delle sue idee sull’Economist è molto politica. Sperabilmente andremo verso la revisione dei trattati Ue.

Ignari della grammatica istituzionale, alcuni governanti – in passato Luigi Di Maio su Draghi, ora tutto il governo su Paolo Gentiloni – criticano gli italiani nelle istituzioni che, secondo loro, non operano nel nostro interesse. Tocca ricordare, come fossero al primo giorno di scuola, i doveri fissati nei trattati; leggerli aiuterebbe, magari scoprirebbero che il nostro interesse concorre a definire quello dell’Europa tutta.

È vero, anche in Bce molti consiglieri alimentano contrasti pubblici fra (supposti) interessi dei diversi paesi, a partire proprio dai tedeschi, già paladini di un Bce indipendente. È meglio che un paese fragile non si presti a un gioco nel quale vincono i più forti.

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