Si inizia al Senato dove si è aperta la crisi di governo. Nell’aula di palazzo Madama, il presidente del Consiglio Mario Draghi domani pronuncerà le prime parole attese dopo la consegna delle dimissioni, poi respinte, al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nel pomeriggio, invece, ripeterà l’intervento alla Camera, come deciso ieri dai presidenti Roberto Fico ed Elisabetta Casellati. Il premier, come indicato dal Quirinale il giorno delle dimissioni, svolgerà le comunicazioni, che da regolamento possono prevedere un voto finale.

Potrebbe essere l’ultimo discorso che i parlamentari eletti nella XVIII legislatura ascolteranno dal premier. Ieri, la conferenza dei capigruppo di Montecitorio, la riunione dove si riuniscono i rappresentanti dei partiti presenti in parlamento, ha deciso che dopo la parole di Draghi si voti la fiducia al governo. Un voto, però, non può essere dato per scontato. Sarà Draghi a decidere se andarsene, consegnando nuove dimissioni irrevocabili a Mattarella, oppure restare e permettere ai parlamentari di votare per rinnovargli la fiducia.

Un premier non sfiduciato ma dimissionario, che va in parlamento per dire ai partiti quali sono le sue intenzioni future, se continuare a governare oppure no, è un caso che non ha grandi precedenti nella storia. I regolamenti parlamentari guidano le attività dei due rami del parlamento, ma non riescono a coprire tutte le variabili politiche. E questo è uno dei casi.

Quindi, ci si rifà alla prassi che, coincidenza, può essere richiamata con quanto accaduto a Giuseppe Conte al termine del suo primo governo. Era agosto 2019, l’anno del Papeete di Matteo Salvini. Il 20 agosto di quell’anno, l’allora premier si è presentato alla Camera: una volta finito il suo intervento, e consegnato il testo scritto agli uffici del Senato, si è recato al Quirinale per rassegnare le dimissioni. La grande differenza con i fatti odierni, però, è che allora Conte non aveva più la maggioranza in parlamento, la Lega aveva promesso di sfiduciarlo. Draghi, invece, ha i numeri dalla sua parte.

La manovra parlamentare

Nel frattempo, sia al Senato sia alla Camera, molti parlamentari si muovono per poter scongiurare la crisi di governo. Anche utilizzando i regolamenti parlamentari.

Ieri, alla riunione dei capigruppo, Pd e Movimento 5 stelle, quest’ultimo rappresentato da Davide Crippa, hanno chiesto di votare la fiducia a Draghi, e di farlo parlare prima alla Camera e poi al Senato. La seconda richiesta, però, è stata respinta, in particolare dal centrodestra. La proposta di dare la precedenza a Montecitorio non è casuale, come non lo è il fatto che tra i promotori c’era Crippa, che rappresenta l’ala governista del Movimento di Conte. E che dunque non vuole chiudere l’esperienza del governo di unità nazionale, qual è quello di Draghi.

Iniziare alla Camera avrebbe voluto dire garantire a Draghi, durante il voto di fiducia, numeri più alti che al Senato. Un segnale politico per convincerlo a restare. A Montecitorio, la maggioranza può contare su una soglia di consensi più importante e, ora, potrebbe accogliere altri parlamentari del M5s prossimi alla scissione. Si parla di 30-40 Cinque stelle tra i due rami del parlamento, alla Camera almeno quindici sarebbero disposti ad appoggiare Draghi non seguendo la linea di Conte. Ma l’inversione tra Camera e Senato non è riuscita, complice anche il mancato appoggio del presidente Roberto Fico, che insieme alla presidente Casellati, ha preferito seguire la prassi: si inizia lì dove si è consumata la crisi, quindi al Senato.

Una lunga giornata

La seduta dell’aula del Senato dovrebbe iniziare tra le 9 e le 9.30. Draghi interviene per primo, poi la parola passa ai senatori per la discussione generale. E sarà probabilmente questo il momento più importante: dalle parole di Draghi si capirà se ha intenzione di andare avanti o meno.

Nel primo caso, però, si apre una fase di trattativa per i partiti: devono capire come scrivere la risoluzione di maggioranza, il testo sul quale si pone la questione di fiducia, e soprattutto chi lo firma. Il Movimento 5 stelle potrebbe decidere si sfilarsi, e alcuni senatori scontenti di Conte potrebbero decidere invece di appoggiare il governo. Per presentare il documento c’è tempo fino alla fine della discussione generale. Poi, come da consuetudine, sarà data la parola al governo per la replica. Draghi, a differenza di molti suoi precedessori, l’ha sempre svolta.

Se le cose, invece, andassero male e Draghi decidesse di chiudere l’esperienza a palazzo Chigi, l’assemblea svolgerebbe comunque la discussione, ma consapevole del fatto che difficilmente ci sarà un nuovo governo che traghetti il paese verso la fine della legislatura. In questo secondo caso, Draghi torna al Quirinale.

 

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