«La via maestra è l’obbligo vaccinale, lo sosteniamo ancora. Servono i vaccini, e per i vaccini obbligatori serve una norma di legge. Lo dice l’articolo 32 della Costituzione. Il governo per non affrontare i conflitti interni alla sua maggioranza non lo fa». Fama e aria da “tosta”, Francesca Re David, è la prima donna alla guida della Fiom.

Il green pass di fatto è un obbligo vaccinale indiretto, cosa cambia?

Intanto la salute pubblica riguarda tutti i cittadini, non solo i lavoratori. Invece il pass non riguarda tutto il paese. Non i pensionati, per esempio che sono tra i più fragili. Nei supermercati, spesso affollati, si mischiano persone con obbligo del pass e persone senza, è un paradosso. Non condividiamo che si proceda per categorie, non siamo d’accordo.

Strizzate l’occhio ai No-vax, o avete molti iscritti leghisti?

Chi lo dice è in malafede. Siamo per l’obbligo vaccinale. Siamo stati noi a volere i protocolli di sicurezza, abbiamo scioperato per ottenerli quando le aziende pretendevano di tenere aperto senza sicurezza. Ma, come dice la comunità scientifica, il vaccino non elimina la necessità delle misure di sicurezza: distanziamenti, mascherine, plexiglass. Non vorremmo che ci fosse la tentazione di toccare i protocolli.

La produzione è salita ai livelli del 2019. Va tutto bene?

Lo dice anche Federmeccanica elaborando dati Istat. L’Italia va meglio di altri paesi europei. Ma a questa crescita non corrisponde un aumento dell’occupazione, aumentano solo i contratti a termine e il lavoro precario. Dallo sblocco dei licenziamenti non ci sono stati licenziamenti di massa, perché l’accordo fra le parti sociali funziona e perché si fanno straordinari, ma abbiamo avuto aperture di procedure importanti in aziende dell’automotive, Timken, Giannetti e Gkn, proprietà di fondi e di multinazionali, piene di lavoro, che decidono di chiudere e andare in un altro paese europeo. Abbiamo industriali che fanno molti utili per loro e non li ridistribuiscono né in termini di salario né di occupazione stabile. Permetta di ricordare di nuovo la Costituzione che chiede la responsabilità sociale delle imprese, e leggi per farla rispettare.

Il decreto contro le delocalizzazioni non vi piace?

Intanto il governo non ha neanche pensato di discuterlo con il sindacato, visto che abbiamo un’esperienza concreta. Per quello che abbiamo saputo, si tratta di una proceduralizzazione dei licenziamenti. Ma il tema non è rispettare il bon ton. Confindustria parla di politiche attive: allora intanto proviamo a salvaguardare la struttura industriale del paese e i lavoratori mentre sono occupati. Serve una cassa integrazione per la transizione che preveda che se un’azienda vuole andarsene non possa liquidare tutto in 75 giorni, ma sia costretta a un confronto in cui si prova a capire se può non andarsene e in ogni caso vincoli lo stato e l’impresa a trovare soluzioni alternative. Spesso le aziende non sono neppure disponibili a lasciare la produzione, per eliminare la possibile concorrenza.

Vanno in un altro paese europeo solo perché costa meno?

In Europa dell’est i lavoratori hanno meno diritti e meno salario dell’Italia, che pure ha tra i salari più bassi. E succede che le aziende delocalizzano per prendere i soldi europei per lo sviluppo di quei paesi. Serve una legislazione europea contro la concorrenza al ribasso all’interno dell’Unione. Ci sono elementi di debolezza strutturale del paese, il fisco, le reti materiali e immateriali, la formazione specifica e la dimensione delle imprese. Ma che il nostro sistema industriale non funzioni non si può dire: le nostre produzioni crescono perché in Italia si lavora bene.

Che succede all’Ilva?

Ci chiamano solo per risolvere problemi di ordine pubblico. A luglio siamo stati convocati perché a Genova i lavoratori avevano reagito in modo deciso alla cassa integrazione ordinaria. I ministri Giorgetti e Orlando hanno detto che l’Ilva non poteva fare la cig ordinaria perché non c’è la crisi – anzi c’è un enorme richiesta di acciaio che non si è in grado di soddisfare – e che presto ci avrebbero convocato per il piano industriale. Non è accaduto, e l’Ilva ha di nuovo chiesto la cig. Immaginiamo che ci sia una dialettica nella proprietà e che finché non la risolvono tengono i lavoratori appesi, e l’industria del nostro paese. Giorgetti è chiuso a qualsiasi confronto, forse non legge neanche le nostre mail. Il 29 settembre abbiamo convocato un coordinamento unitario Fim, Fiom Uilm, se non avremo ancora segnali decideremo come fare per farci convocare.

Perché il governo non vi chiama?

Forse pensano di poter fare a meno del sindacato. Del resto questo governo trova le mediazioni fra tutta la maggioranza e dopo che le ha trovate non è nelle condizioni di modificarle. E poi il Mise ha un orecchio molto attento agli industriali, i quali però da soli non fanno gli interessi del paese. Per fare gli interessi del paese servono i lavoratori, che sono il paese.

Ma durante la pandemia si può agitare il conflitto?

Il confronto è un fatto democratico. Il conflitto, lo sciopero, è l’unica arma che hanno i lavoratori se non riescono a farsi ascoltare. Abbiamo scioperato durante la pandemia per ottenere un nuovo contratto. Poi c’è chi dice “sciopero generale”, ma lo sciopero costa ai lavoratori quindi sì fa al momento giusto e su obiettivi precisi.

Il Pnrr non crea lavoro?

Il rischio c’è. Rischiamo di socializzare il debito per le nuove generazioni e offrire loro solo lavoro precario. In Germania e in Francia i sindacati sanno in quali aziende arrivano i soldi. Noi no, da noi non c’è trasparenza sui finanziamenti alle imprese. E non ci sono condizionalità per accedere a queste risorse. Anche la priorità a donne e giovani di cui si parla: ma qual è lo strumento che vincola le aziende? Fin qui siamo al buon cuore delle imprese. Siamo a un passo dalla fine di Quota 100. C’è un’idea di mettere in piedi un po’ di giustizia fiscale? Che succede sugli ammortizzatori sociali? È normale che i lavoratori non debbano partecipare a questa discussione? La rivoluzione tecnologica mangia il lavoro, che facciamo?

Siete contro la transizione?

Ma no, ma se non la si fa investendo nel lavoro si produrrà ancora disoccupazione. Chi sta progettando come si affronta la transizione? Mancano i microchip, si fanno in Cina, le nostre aziende di automotive si bloccano anche per questo. Mancano i biomedicali. Si potrebbero fare tanti altri esempi, c’è bisogno di una capacità di progettazione con un ruolo forte dello Stato e delle aziende partecipate, e una forte interlocuzione con tutte le parti sociali.

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