Solo alla parola «controllo» scatta il fastidio, una sorta di allergia rispetto ai rilievi mossi da qualsiasi organismo indipendente chiamato a valutare, di volta in volta, le scelte del governo. E quindi ecco c’è la reazione furiosa per delegittimare chi mette bocca sull’operato del governo Meloni. Perché l’unica parola “ufficiale” spetta a Palazzo Chigi e ai ministeri. A nessuno più. Almeno secondo la visione della destra bulimica di potere, rinchiusa nel fortino di Palazzo Chigi. Senza scomodare la battaglia ingaggiata contro la magistratura nel suo complesso - basti pensare alle parole del ministro della Difesa, Guido Crosetto - ne sanno qualcosa alla Corte dei conti. L’ultima prova di forza è arrivata sulla manovra economica. Un emendamento, a firma del governo, infligge un duro colpo alle funzioni della magistratura contabile, sottraendo alle sezioni regionali la verifica sui piani di rientro delle regioni in disavanzo. La funzione, secondo la proposta dell’esecutivo, sarà assegnata al collegio dei revisori delle regioni. Tutto resta nel perimetro degli enti, eliminando la supervisione esterna.

Al di là di qualsiasi valutazione sul caso specifico, non passa inosservato l’indebolimento della Corte dei conti. Un blitz parlamentare che arriva a pochi giorni dalla memoria, molto critica, depositata in parlamento proprio dalla magistratura contabile sulla legge di Bilancio. Tra i vari aspetti controversi il presidente, Guido Carlino, aveva evidenziato lo «sbilanciamento verso misure mirate a sostenere progetti specifici, primo fra tutti per peso finanziario, il Ponte sullo Stretto», uno dei totem della finanziaria. L’intoccabile sancta sanctorum delle promesse del ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini. Difficile, se non impossibile, parlare di un eventuale rapporto causa-effetto. Poco male. Fatto sta che nella manovra l’esecutivo ha deciso di ridurre il margine di azione della Corte dei conti rispetto alle regioni.

Non si tratta della prima volta per la magistratura contabile: in primavera, c’era stata una relazione dei magistrati contabili sul Pnrr, in cui venivano evidenziate lacune e ritardi. Era il primo vero documento che forniva una mappatura sullo stato dell’arte. Il ministro Raffaele Fitto chiese un apporto più «costruttivo», lasciando trasparire una certa irritazione. Qualche settimana dopo è stato presentato, dalla destra, un emendamento al decreto Pa per eliminare il cosiddetto controllo concomitante della Corte dei conti sull’attuazione del Piano.

Ipersensibilità da Pnrr

La realizzazione degli interventi del programma Next generation Eu è uno dei temi sensibili, tra quelli che innesca le reazioni più piccate nei confronti di chiunque provi a proferir verbo sulla questione. Fitto, solitamente mite e dialogante, si irrigidisce, consapevole che è la sfida più importante del governo in carica. Un caso più recente? L’ufficio parlamentare di bilancio (upb), non proprio una pattuglia di descamisados oppositori, ha messo nero su bianco una serie di numeri, trasmettendo una memoria al Senato sullo stato di attuazione. In quel documento, con dati aggiornati a novembre, erano raccontati i ritardi nell’«avvio delle gare» d’appalto e non per colpa del «fenomeno delle gare deserte, che rimane di entità marginale». Al fianco c’erano delle sottolineature su un sistema da perfezionare in vari punti: i dati, per quanto parziali, hanno svelato un rallentamento della spesa.

Di fronte a questa situazione, Fitto ha tentato di sminuire la portata del dossier: «Era aggiornata a maggio», ha commentato qualche ora dopo, benché il titolo del dossier, firmato upb, facesse riferimento novembre. Da qui il ministro ha rilanciato: «È in corso di predisposizione, come è noto, la nuova relazione del governo al Parlamento sullo stato di attuazione del Pnrr, nella quale sarà fornito il livello aggiornato di spesa». L’unico depositario dei numeri veri, nella filosofia di Palazzo Chigi, è quindi l’esecutivo. In particolare del dipartimento che fa riferimento all’ex eurodeputato. Ma le relazioni governative spesso presentano contenuti più vaghi, denotando uno dei grandi problemi del Piano nazionale di ripresa e resilienza: la trasparenza e la complessità dell’accesso ai dati.

Anti-Anac

Non è solo il Pnrr a scatenare le ire governative. Per informazioni basta citofonare al presidente dell’Anac, Giuseppe Busia, finito nell’occhio del ciclone nei mesi scorsi. La sua colpa? Aver espresso perplessità per la «deregolamentazione» prevista dal codice appalti, una delle riforme fortemente volute da Salvini. Con le modifiche «potrebbero essere chiamate le persone più vicine al dirigente, al sindaco o all’assessore», disse Busia in un’intervista rilasciata Repubblica. Apriti cielo. Appena l’Autorità anticorruzione ha fatto sentire la propria voce, su un tema peraltro di propria competenza, è stata subissata di critiche. Fino alla richiesta di dimissioni avanzata direttamente dal responsabile enti locali della Lega, Stefano Locatelli: «Se parla così, non può stare al suo posto». Il passo indietro non c’è stato, ma la delegittimazione dell’autorità indipendente non è finita.

Nel governo il ragionamento è che chiunque critichi non è imparziale. L’arbitro non può fischiare un fallo, deve assecondare il più forte, quindi chi governa. Il clima non è migliorato con il trascorrere delle settimane. Appena pochi giorni fa, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, non ha inserito l’Authority nella delegazione alla decima conferenza Onu a cui hanno presenziato i 190 stati che hanno sottoscritto la convenzione anticorruzione. Il caso è finito al centro di un’interrogazione parlamentare, presentata dal Pd al Senato. Nei fatti, la situazione è cambiata poco: l’Anac è stata oggi relegata ai margini del dibattito pubblico.
Non è stato da meno il ministro degli Affari regionali, Roberto Calderoli, quando ha evocato un complotto del «centralismo romano», solo perché l’ufficio bilancio del Senato aveva espresso delle perplessità su alcuni punti della riforma dell’autonomia differenziata. Tanto che il dossier è stato prima sparito dal web e poi riapparso dopo le proteste con la dicitura singolare «bozza provvisoria non verificata». Una condizione di provvisorietà che si è protratta per mesi: ancora oggi, sul sito di Palazzo Madama, non esiste una versione aggiornata, che sia ufficiale. Il segnale che l’etichetta di bozza puntava soltanto a svilire il contenuto dello studio.

Dalla stampa a Draghi

Sul fastidio per il controllo, operato dal quarto potere, il giornalismo, la galleria è ampia: l’azione intimidatoria, a colpi di querele e diffide, è portata avanti con puntualità. Addirittura fino a caricare a testa bassa contro la stampa amica. Il paradigma di questo approccio è l’annuncio di Crosetto di una querela nei confronti del Giornale. E nello stesso ambito dell’allergia a chi non è allineato, a chiudere simbolicamente il cerchio, rientra la polemica iniziata contro l’ex presidente, Mario Draghi. Certo, non si tratta di un’autorità indipendente, formalmente istituita. Ma è un profilo che dalla fine del proprio mandato, ha sempre mantenuto un profilo super partes, decisamente istituzionale che viene visto come un potenziale pericolo.

Eppure non ha mai detto una parola sopra le righe, ha accurato qualsiasi riferimento che potesse lasciare intendere anche solo una vaga critica verso il governo Meloni. Per tutta risposta, però, ha subito un pesante affondo della premier in persona, durante un intervento alla Camera. «La politica estera non si fa con le foto», è andata giù dura la presidente del Consiglio. In questo caso il problema non è nemmeno una presa di posizione di Draghi, è sufficiente la sua presenza. Il solo fatto che ci sia è già un problema. Un fastidio. Perciò da colpire. E, possibilmente, delegittimare come ogni organismo indipendente.

© Riproduzione riservata