Il Forum economico mondiale di Davos (Wef) sulle nevi svizzere è in programma dal 15 al 19 gennaio 2024. E se il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha affermato che la formula di pace per l’Ucraina sarà discussa proprio a Davos, fonti diplomatiche svizzere indicano che il 14 gennaio la pace in Ucraina non sarà trattata a Ginevra, ma proprio nella cittadina dei Grigioni, dove si terrà una serie di discussioni sul piano di pace del presidente ucraino.

La Russia, che dal 2022 non è più invitata al Wef per ritorsione all’invasione ucraina, non ha partecipato nemmeno alle tre tappe precedenti del piano, a Gedda, Copenaghen e Malta, e niente segnala che lo farà in questa occasione.

Ma se Kiev ha deciso di trasformare il Wef in un podio delle sue ragioni, dal governo di Roma giungono voci di mancanza di interesse né di voler partecipare all’evento, come avvenne l’anno scorso, per timore di polemiche nel frequentare il “quartier generale” della globalizzazione. L’attenzione di quest’anno sarà, secondo il Wef, «esplorare le opportunità offerte dalle nuove tecnologie e le loro implicazioni sul processo decisionale e sul partenariato globale».

Insomma gli argomenti all'ordine del giorno della kermesse includono la lotta ai cambiamenti climatici, il futuro del lavoro e delle nuove tecnologie come l’intelligenza artificiale. Si parlerà anche dell'accelerazione del capitalismo degli stakeholder. A Davos chiedono ogni anno più responsabilità alle imprese e meno capitalismo predatorio, ma quest’anno il “cigno nero” che nessuno si aspettava sarà quello della globalizzazione che arretra e dei conflitti in Ucraina e Medio Oriente.

Ci saranno gli indiani e i cinesi del presidente cinese, Xi Jinping che a Davos nel 2017 aveva difeso la globalizzazione dagli attacchi di Donald Trump, presidente che a sua volta aveva snobbato l’evento tra le nevi svizzere lasciando campo libero alla Cina e poi aveva fatto ammenda e l’anno successivo era arrivato con l’Air One presidenziale a Ginevra e poi in elicottero a Davos.

Eppure l’Italia e il suo governo, probabilmente non sarà presente in forza a dire la sua né a cercare di capire quali saranno i trend del futuro. Forse ci dovrebbe essere il ministro delle Finanze, Giancarlo Giorgetti, il più sensibile alle aspettative degli investitori che acquistano i BTP o l’ex premier Mario Draghi, che venne l’anno scorso per tre giorni a tenere conferenze ai grandi della terra. Forse ci saranno qualche ceo di grandi banche e assicurazioni italiane, ma il Paese e l’esecutivo brillerà per una rappresentanza al minimo sindacale.

Non sarà una novità, purtroppo, ma una linea di continuità di distacco non solo del governo Meloni, ma più in generale della intellighenzia italiana, che da tempo diserta gli appuntamenti internazionali come il forum di Davos. I perché di questa assenza sono il provincialismo dell’élite italiana, ma anche il rischio di non sapersi districare in prima persona in un ambiente complesso perché gli assistenti devono restare fuori dal “bunker” del centro congressi dove si svolgono i lavori. E in questa situazione dove i rapporti sono in presa diretta la figuraccia è sempre in agguato. Famosa è rimasta nel 2019 la frase rubata con lettura del labiale del premier Giuseppe Conte che aveva offerto al bar centrale del centro congressi un caffè alla Merkel e che a domanda della Cancelliera su Salvini aveva risposto che “Salvini è contro tutti”, scatenando una epica bufera tra alleati. Eppure esserci è vitale.

Da notare che al Wef partecipò il nuovo Sudafrica di Nelson Mandela, un paese appena uscito dalla stagione dell’apartheid convincendo i partecipanti che Pretoria era affidabile o la presidente brasiliana di sinistra radicale, Dilma Roussef, che nel 2014 cercò, con una virata a 180° di attrarre i capitali americani verso il suo paese. Invece la classe politica italiana sembra aver deciso di guardare la globalizzazione dai posti in platea, evitando il ruolo di attori.

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