Nicola Fratoianni, la presidente Meloni ha chiesto in 60 giorni al Cnel di arrivare a una proposta alternativa alla vostra, quella del salario minimo. Cosa può fare il Cnel?

La premier Meloni ha chiesto sessanta giorni per recuperare uno svantaggio oggettivo. Il governo e la maggioranza sono in difficoltà, forse per la prima volta in modo serio dall’inizio della legislatura. E non per uno scivolone ma per un’iniziativa unitaria delle opposizioni. È in difficoltà perché la proposta del salario minimo di tutte le opposizioni interviene su una delle emergenze del paese, riguarda quasi 4 milioni di lavoratori poveri, ma anche sull’insieme del mondo del lavoro nell’unico paese in Europa nel quale gli ultimi trent’anni gli stipendi sono andati indietro anziché crescere. Il governo si è trovato in debito d’ossigeno perché è consapevole che c’è un largo consenso sulla nostra proposta, anche nell’elettorato di destra.

Da Fdi grandi elogi alla scelta del Cnel. Di fatto cosa gli si chiede?

Non è chiaro. Con tutto il rispetto, quello non è il luogo della trattativa e noi non siamo le parti sociali, noi siamo le opposizioni in parlamento.

Giorgia Meloni ha convocato le opposizioni l’11 agosto, a parlamento chiuso, dopo aver fatto votare in aula la sospensione della discussione. Ci ha convocato per dirci quasi nulla. Ha presentato una serie di perplessità, a cui noi abbiamo diligentemente risposto punto su punto. Un question time al contrario ha detto il collega Magi: il governo chiedeva a noi. Comunque quelle risposte erano già contenute nella legge. Sorprende che dopo quattro mesi di dibattito in commissione e un gran numero di audizioni, tornino obiezioni affrontate dalla nostra proposta.

Una delle obiezioni della premier: il vostro testo colpisce la contrattazione collettiva.

È il contrario. Il testo fa perno sulla contrattazione, e semplicemente stabilisce che sotto una certa soglia non sia lavoro ma sfruttamento.

Un’altra: c’è il rischio che chi guadagna più del minimo salariale si veda stracciato il contratto e livellato al ribasso.

No. Se la nostra legge fosse approvata nessun datore potrebbe farlo. Stabilisce che, nelle poche aree non coperte dalla contrattazione collettiva, si introduce la retribuzione parametrata sul contratto di riferimento, e sulla media più alta. La proposta ha due perni: che la giusta retribuzione è stabilita nella misura dei contratti collettivi di riferimento del settore siglati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative. E che comunque non si può andare sotto i 9 euro.

Il governo per ora non ha una proposta. Ma, ed è una novità significativa, è diviso. Nell’incontro a palazzo Chigi ci sono stati segnali di competizione interna?

Direi di sì. Il vicepremier Salvini non era presente, era in videocollegamento. Ha parlato per pochi minuti, e curiosamente ha ribadito la contrarietà «del suo movimento» al salario minimo ed ha rilanciato le proposte del sottosegretario Durigon. Insomma ha parlato da leader della Lega, mentre noi avevamo di fronte il governo.

Altra novità assoluta, le opposizioni sono rimaste unite. Il nucleo di un possibile schieramento?

Fra noi c’è una convergenza di merito, su una proposta. Ma è una proposta che allude a un tema più complessivo, quello della giustizia sociale. Per me è un’ottima notizia. La costruzione di convergenze attorno a battaglie ed obiettivi è la strada più interessante e anche la più praticabile. Ma dobbiamo evitare ogni volta di proiettare attorno al singolo terreno una dimensione generale. Lasciamo perdere, per ora. Ieri nonostante l’evidente tentativo di Meloni di dividere le opposizioni, non c’è riuscita. Abbiamo mantenuto l’unità durante l’incontro ma anche quella in prospettiva: abbiamo rilanciato tutti insieme la raccolta di firme e una mobilitazione per allargare il fronte. Certo, quando si comincia a confrontarsi con più frequenza, si producono risultati migliori.

Lei è cauto. Per difendere Calenda dagli attacchi di Renzi, che lo accusa di aver ceduto a Pd e M5s?

Renzi invece ha ceduto a Fratelli d’Italia e Lega? È curioso che consideri innaturale una convergenza fra forze progressiste.

Pensa che Renzi sia, come dice il M5s, la stampella del governo?

Io non penso, vedo i voti in aula, l’attitudine crescente a interloquire con il governo. Anzi, diciamo ad andare ben oltre l’interlocuzione, a costruire un asse con la destra di governo. Venerdì mentre noi eravamo riuniti a palazzo Chigi, gli esponenti di Iv si sbracciavano sulle agenzie per augurarsi un esito unitario della discussione. Si sono sentiti esclusi da un dibattito che può costruire qualcosa di buono per il paese. Ma se non vogliono sedersi dalla parte delle opposizioni, prima o poi dovranno decidere da che parte del tavolo stare. E le opzioni che restano non sono molte.

Resta che a sinistra siete divisi sulla guerra. Ed è difficile immaginare uno schieramento che si propone di governare con queste divisioni. O no?

Esistono differenze molto nette fra noi e il Pd, per esempio. Non si possono rimuovere. Ma possiamo confrontarci su alcuni temi: per esempio sul fatto che l’economia di guerra sta spingendo a destra le politica in Europa: lo si può negare? La ricostruzione di un’autonomia europea sulla politica estera e sulle politiche di difesa può essere la chiave per costruire un’idea di governo del mondo multipolare e fondato sulla pace.

Voi rossoverdi avete lanciato un nuovo patto «ecosociale»: insomma una lista per le europee.

Daremo continuità a questa esperienza. Anche al simbolo: stavolta gli elettori di sinistra e ambientalisti non dovranno fare la caccia al tesoro per trovarci. Con Angelo Bonelli abbiamo avanzato una proposta aperta e larga alle esperienze civiche, quelle dell’ecologismo e dell’ambientalismo italiano e alle tante e diffuse esperienze della sinistra, organizzate diversamente nei territori. Una proposta di convergenza a partire da un dato politico: l’esperienza di Alleanza verdi sinistra è una base di partenza che vogliamo allargare e consolidare.

Se eleggerete europarlamentari andranno nel gruppo della sinistra o nei verdi?

Vedremo insieme. Magari qualcuno nel gruppo della sinistra e qualcuno nel gruppo dei verdi, come accade a tutte le esperienze di convergenza, come la spagnola Sumar ma già prima quella di Podemos.

Il Pd di Elly Schlein punta sulle europee per crescere. E pescherà voti nello stesso vostro mondo ambientalista. Lo trascinerete in una gara a chi è più radicale?

Anche noi scommettiamo sulle europee. Detto questo fin dalle primarie Pd, mi sono augurato che Elly diventasse segretaria. E al netto della stima, del fatto che la conosco da tempo, e che prima abbiamo fatto tante battaglie insieme, penso che quando si allarga uno spazio politico si allarga per tutti. Ed è un bene per tutti. Se si lavora in tanti su un campo, cresce lo spazio per le culture politiche, si produce una generale tendenza positiva per tutte le forze che attraversano questo campo. Si ricorda quando Conte diceva di essere “l’unica forza progressista” del paese? Non ne siamo rimasti schiacciati. Anzi sono convinto che abbia beneficiato di una maggiore presenza nel dibattito di parole d’ordine sulle quali era a suo agio. Se si discute di salario minimo legale, fa bene a tutte le forze che fanno di questi temi un tratto distintivo.

In parlamento circola la proposta, senza padri per ora, di abbassare al 3 per cento lo sbarramento per le europee. Un regalo anche per voi, e un dispetto al Pd?

La discussione c’è. Ma non sarebbe un regalo né un dispetto, sarebbe una scelta ragionevole. Lo sbarramento per le europee è irragionevole, in molti paesi non c’è e per una ragione evidente: sono elezioni proporzionali che non pongono problemi di governabilità, ammesso che la governabilità si affronti con gli sbarramenti, cosa che non credo. Per giunta in Italia la soglia è più alta che per il parlamento nazionale: è solo una soglia illiberale che comprime la rappresentanza. Umiliando centinaia di migliaia di elettori e elettrici, talvolta milioni.

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