Mai viaggio diplomatico è stato più provvidenziale. La premier Giorgia Meloni ha messo un oceano tra lei e la Sardegna volando a Washington in una trasferta utile a coltivare rapporti istituzionali e che le permette di portare a casa un risultato importante: il trasferimento in Italia di Chico Forti, detenuto in un carcere americano da 24 anni con una condanna per omicidio che lui ha sempre contestato.

L’annuncio è destinato a fare scalpore, perché da anni la diplomazia italiana era al lavoro. «È stata firmata l’autorizzazione al trasferimento in Italia di Chico Forti, un risultato frutto dell’impegno diplomatico di questo governo e della collaborazione con lo stato della Florida».

Al successo diplomatico, però, segue una postilla non proprio secondaria: l’annuncio è stato dato con un video girato dal suo staff, niente conferenze o punti stampa con i giornalisti. Quasi sicuramente un modo per evitare domande scomode sulle tensioni con il Quirinale sul caso dei manganelli di stato.

Certo è che la mancanza di un incontro al termine del faccia a faccia con Joe Biden, con le classiche dichiarazioni bilaterali di rito, è uno strappo all’etichetta che ha stupito la stampa statunitense e indisposto quella italiana. Soprattutto alla luce di un annuncio tanto importante come quello su Forti. Un timore, quello per le domande, che insegue Meloni anche a migliaia di chilometri da palazzo Chigi.

Questa paura, non confermata ma nemmeno smentita e dunque lasciata nel limbo delle interpretazioni, stride però con l’intento del viaggio, svolto in quanto presidente in carica del G7 e dunque per accreditarsi quale volto affidabile del conservatorismo europeo. Quello che viene trasmesso, però, è la sensazione di una leader perseguitata dai suoi fantasmi.

Per le ricostruzioni, dunque, non resta che affidarsi a quanto trapelato a margine. A distanza di sei mesi dall’ultima stretta di mano in terra americana, Meloni ha incontrato di nuovo il presidente americano e lo ha fatto portando in dote quelli che considera i suoi successi in politica estera. È l’esordio americano della guida italiana del G7 che, per volontà della premier, si è riunito simbolicamente a Kiev sabato scorso. Formalmente l’incontro aveva come scopo il dialogo sulle priorità dell’agenda del G7, dalla difesa internazionale all’attenzione all’Africa, fino alle questioni migratorie e all’intelligenza artificiale.

Il viaggio, dunque, non ha avuto particolari obiettivi strategici se non quello – non secondario – di coltivare buoni rapporti con l’alleato statunitense. Ma è servito a rafforzare un disegno: quello di Meloni volto buono dei conservatori europei, che «parla a tutti i 27 paesi», come aveva risposto in parlamento a chi le biasimava l’amicizia con l’Ungheria di Viktor Orbán.

Estremista sì, ma «affidabile» – come la descrive il suo entourage che la guida nella tessitura dei rapporti diplomatici – e capace di «parlare con tutti» tenendo fermi due punti: l’ombrello della Nato e il sostegno senza tentennamenti all’Ucraina. In questo contesto, Meloni ha potuto sottolineare a Biden anche i suoi buoni rapporti con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen.

La parola d’ordine, dunque, è rassicurare. L’Italia a guida meloniana è solido nell’alleanza atlantica, forte del suo ruolo strategico nel Mediterraneo su cui si affaccia anche Israele. Israele, guidato dal conservatore Benjamin Netanyahu, con il quale Meloni potrebbe a breve fare un tentativo per convincerlo a moderare le sue posizioni, anche nell’interesse statunitense.

Dal volo transoceanico e affondata in questi pensieri, i guai della Sardegna e quelli incombenti sulle altre regioni si sono certamente persi in lontananza. A maggior ragione senza domande dei giornalisti pronte a ricordarli.

Il doppio registro

I giorni nel continente americano (una seconda tappa toccherà il Canada di Justin Trudeau) hanno un doppio registro comunicativo. La tappa alla Casa Bianca ha offerto a Meloni la possibilità di rimarcare indirettamente la distanza tra lei e gli alleati di centrodestra.

Proprio nel momento in cui per la prima volta la sua infallibilità è stata messa in discussione («Ho perso in Sardegna», ha ammesso anche lei all’incontro con la stampa estera, intestandosi la sconfitta), rimarcare il suo standing internazionale è un ottimo avvertimento. Tradotto: Meloni rimane l’unica figura davvero affidabile nel panorama politico del centrodestra italiano. Capace di dialogare con l’Ungheria riducendola anche a più miti consigli, ma anche di tenere fermo l’orientamento pro Kiev, pur con alleati come la Lega di Salvini e la Forza Italia che fu di Silvio Berlusconi che non hanno mai del tutto sopito le loro simpatie per la Russia di Putin.

Questo serve a marcare una distanza che non si fermi al piano elettorale, con Fratelli d’Italia traino della coalizione seguita da Lega e Forza Italia ridotte a una sola cifra percentuale a contendersi un secondo posto con distacco.

Le scadenze elettorali internazionali – dalle elezioni europee alle presidenziali americane – impongono di accreditarsi prima di tutto a livello di diplomazia come interlocutore credibile, a prescindere dal volto cattivo sia dei suoi alleati sia di alcuni partiti del gruppo dei conservatori europei. Una scelta, questa, che fino a oggi Meloni ha tentato di portare avanti con attenzione e successo esteriore, al netto dei pochi risultati concreti ottenuti e di evidenti carenze comunicative.

© Riproduzione riservata