«Nessuna pressione, c’è soddisfazione ed entusiasmo sempre maggiore». Il professore Luciano D’Amico, già rettore dell’Università di Teramo e candidato presidente dell’Abruzzo a nome di un campo larghissimo di centrosinistra, è diventato all’improvviso l’uomo più braccato dai cronisti romani.

Lui si schermisce: «È vero che l’attenzione nazionale è molto aumentata in questi giorni, ma noi da tempo sul territorio constatiamo che l’interesse per il nostro progetto è notevole. Da settembre, l’inizio della campagna elettorale, abbiamo avuto segnali positivi. C’è voglia di voltare pagina, e di farlo partecipando a un percorso che consideri prioritarie le esigenze degli abruzzesi. Dopo anni di governo regionale sordo alle esigenze dei territori è il momento che l’Abruzzo torni a scrivere il proprio futuro».

Gli facciamo notare che dopo la «scoppola sarda» (copyright Maurizio Lupi), la destra non può perdere. Dunque si prevede un fine campagna elettorale ruvido. «Ben venga, se serve a mettere in risalto con franchezza quello che manca alla nostra regione. La nostra terra deve tornare a esprimere tutte le sue enormi potenzialità. È questo il fulcro delle nostre proposte per fare fronte all’assenza di regia e progettualità che ha caratterizzato la nostra Regione, nonostante le grandi opportunità date da una disponibilità di risorse, di fatto, senza precedenti». E infine: come farà a tenere uniti gli alleati fino alla fine? «Partendo dall’intesa di forze civiche e politiche regionali, a cui si è aggiunta la consultazione con cittadini e associazioni di categoria. Esprimiamo l’Abruzzo in ogni sua anima e abbiamo costruito il nostro progetto sull’Abruzzo».

Fare come in Sardegna

D’Amico fa professione di fiducia. Il fatto è che per «fare come in Sardegna» bisognerebbe fare proprio come in Sardegna. In altre parole: se il “campo largo” del centrosinistra, resuscitato dalla vittoria di Alessandra Todde, vuole tentare il bis al voto regionale dell’Abruzzo del prossimo 10 marzo, gli alleati debbono fare esattamente come hanno fatto lì. Evitare di mettersi le dita negli occhi. E invece già Giuseppe Conte ha dichiarato in tv che non gli risulta di essere alleato con Renzi e Calenda («ci sono, mi dicono, alcune figure politiche che si raccordano a loro, ma per quanto riguarda le sigle sono forze politiche collaudate, forze civiche»). E invece in Abruzzo l’alleanza è formata da Pd, M5s, Avs, lista Abruzzo insieme-D’Amico presidente, Azione e lista Riformisti e civici: che contiene in pancia i simboli di Psi e di Abruzzo vivo, declinazione regionale di Iv.

Così gli risponde Carlo Calenda: «Noi rivendichiamo l’appoggio di un candidato che ha un curriculum vitae di primordine, che ha rilanciato l’Università di Teramo e risanato l’azienda di trasporti. Sarò nuovamente in Abruzzo lunedì e martedì per sostenerlo. Ma soprattutto evitiamo di raccontare balle cittadini». Calenda ce l’ha anche con Renzi, che in una delle sue esternazioni ha sostenuto di non essere mai candidato con M5s. Insomma, se si va avanti di questo passo, Roma rischia di non dare una grande mano, anzi.

Conte oggi pomeriggio sarà all’Aquila e stasera ad Avezzano. La prossima settimana arriverà le neogovernatrice Todde. Al di là delle dispute di bottega, i leader dell’opposizione ora si rendono conto che la partita abruzzese è l’occasione per mettere sul serio nei guai Giorgia Meloni.

E a chi non vuole essere iscritto d’ufficio al “campo largo”, l’ex ministro Andrea Orlando, su La7, offre una soluzione: «Chiamiamolo Campo per la difesa della sanità pubblica, Campo per la Sanità, in tutte le regioni governate dalla destra che la stanno sfasciando. La discussione seria da fare ora è basta con le manfrine, basta con le tattiche, con l’idea di pesarsi per contare di più la volta dopo, il punto è se si vuole battere la destra e se si vuole costruire una alternativa oppure no. E mi sembra che la Sardegna sia un campanello che suoni una chiamata».

Campanacci e sondaggi

A destra il campanello d’allarme è suonato da domenica scorsa, giorno della sconfitta sarda. Ed è un campanaccio. Da due mesi i sondaggi danno D’Amico in rapido avvicinamento al candidato della destra, e presidente uscente, Marco Marsilio, fenomeno che fino a qualche tempo fa sarebbe stato considerato inimmaginabile. 

E l’Abruzzo non è la Sardegna, per Fratelli d’Italia. Marsilio è un famiglio stretto di Meloni. Se nel 2019 non si fosse immolato alla causa abruzzese, oggi sarebbe ministro al pari di Francesco Lollobrigida e Guido Crosetto. La sua sconfitta farebbe molto male alla premier. Infatti per FdI l’ipotesi di un’altra scoppola non è immaginabile.

«I risultati di Marco in regione sono importanti: ha ridisegnato la rete ospedaliera, cosa che nessun presidente fin qui ha osato fare per non inimicarsi qualcuno, e così ha liberato 500 milioni di euro. Ha riconquistato i fondi per l’alta velocità Roma-Pescara, si è guadagnato i Fondi strutturali», elenca il senatore Guido Liris, medico.

Liris per quattro anni è stato assessore al Bilancio, cioè più che un braccio destro (aveva diciotto deleghe). E ora è l’abruzzese più alto in carica a Roma: «Da noi non c’è alcun rischio di sconfitta, peraltro la legge elettorale non prevede il voto disgiunto, quindi nelle urne nessuno potrà fare brutti scherzi. Ma certo, quello che è successo in Sardegna ci rende tutti più consapevoli. La centralità nazionale è un motivo in più per fare bene».

Da due giorni Marsilio è preso da iper attivismo. E, riservatamente, da qualche preoccupazione: la chiusura della campagna elettorale sarà a Pescara, il 5 marzo, con i leader nazionali: Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani. Quando è stata pensata sembrava un’ideona. Ora invece a tutti fa venire in testa lo sfortunato palco di Cagliari.

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