Il successo, si sa, nasconde tutte le crepe. Ma dietro i trionfi annunciati di Fratelli d’Italia alle prossime regionali di Lazio e Lombardia, covano in realtà dissidi e polemiche. Il partito di Giorgia Meloni non tollera che qualcuno contesti la linea ufficiale, per questo il tono di voce di tutti gli interlocutori si abbassa quando c’è da manifestare perplessità, soprattutto se riguardano il cerchio magico intorno alla premier.

Anche se pubblicamente nessuno si sogna di chiedere chiarimenti, la mossa del duo Giovanni Donzelli e Andrea Delmastro sul caso Cospito ha creato scompiglio tra i parlamentari e i dirigenti di FdI. La clava calata contro l’opposizione è stata una sorta di rivincita sul centrosinistra. Ma a nessuno è sfuggita la leggerezza di rivelare documenti delicati e riservati. Una questione di stile oltre che di correttezza istituzionale. Soprattutto per una forza politica che non può permettersi di dare l’impressione di utilizzare le istituzioni come fossero sezioni di partito.

«Donzelli ha fatto un casino, va bene per gestire i palchi in campagna elettorale, non per tirare i fili in parlamento», dice un dirigente di Fratelli d’Italia, passato per il Fronte della gioventù e poi per Alleanza nazionale, preoccupato della qualità della nuova classe dirigente più vicina alla premier. Soprattutto perché Meloni, nella sua smania di seppellire ogni dissenso, sta procedendo chirurgicamente a defenestrare i suoi vecchi padri politici, preferendo l’incognita del civico Francesco Rocca nel Lazio pur di isolare definitivamente il più navigato e radicato Fabio Rampelli.

La lezione di Tatarella

Donzelli ieri ha approfittato di un evento in ricordo di Pinuccio Tatarella, organizzato a palazzo Giustiniani, per rifarsi vedere in pubblico. Tutto sorrisi, è arrivato con qualche minuto di ritardo e si è seduto in prima fila, mentre il sottosegretario Alfredo Mantovano ricordava la figura del politico che ha teorizzato il conservatorismo all’italiana. All’evento, organizzato dalla fondazione Tatarella, che ha radunato il gotha della destra con il ritorno di ex storici come l’applauditissimo Gianfranco Fini e Italo Bocchino, erano presenti sul palco anche il presidente del Senato Ignazio La Russa, il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, e l’ex presidente della Camera, Luciano Violante.

In platea deputati, intellettuali d’area e volti noti. Al centro della riflessione la visione prospettica di Tatarella, ex missino con toni da democristiano, secondo cui per portare la destra al governo era necessario perdere ogni nostalgia post fascista e diventare parte dei conservatori europei. «La sua generazione lavorò per traformare il mito in realtà, passando il testimone a quella successiva che oggi è al governo», ha sintetizzato il nipote, Fabrizio Tatarella. Una generazione che però, secondo più di uno dei presenti in sala, si sta già permettendo qualche errore di troppo. «Tatarella avrebbe redarguito il ragazzetto, perché questi gesti si pagano», è stato il commento a denti stretti di uno dei presenti, mentre Donzelli era intento a stringere mani e a ricevere pacche sulle spalle.

Lo stesso vale, con maggiore cautela, anche nel caso di Giovanbattista Fazzolari, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio che La Stampa ha accusato di voler introdurre il tiro al bersaglio come materia scolastica. Storia priva di ogni fondamento secondo il diretto interessato ma confermata dal quotidiano. Anche in questo caso si tratta di un fedelissimo di Meloni. Fazzolari è considerato l’ispiratore della linea della premier in politica estera ed è l’uomo con cui lei si confronta per le decisioni più delicate. Gode di una fiducia maggiore rispetto al duo Donzelli-Delmastro, ma i critici interni al partito ritengono che ci sia stato anche un suo ruolo dietro i pasticci sul caso Cospito. «Ora siamo al governo, vediamo di imparare a starci», è la sintesi di un altro parlamentare di lungo corso.

Il timore è che gli inciampi dei tre fedelissimi, coperti e sminuiti dalla premier, siano solo la prima manifestazione del vero limite di Fratelli d’Italia: la mancanza di una classe dirigente preparata a ricoprire gli incarichi delicati che FdI rivendica lasciando agli alleati poco più che le briciole. Per ora i successi elettorali calmano ogni preoccupazione, tuttavia c’è chi nel partito guarda al 2024: alle ultime politiche è stato candidato fino all’ultimo dei consiglieri regionali, alle regionali si è fatto scouting tra le file leghiste e azzurre, alle europee a chi toccherà? Anche perché aprire troppo le porte significa imbarcare personalità difficilmente controllabili. Non proprio il massimo per un partito che si fonda sula fedeltà assoluto alla propria leader.

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