Una circostanza inedita ha connotato il discorso di fine anno della presidente del Consiglio: la protesta della Fnsi che ha indotto per la prima volta molti giornalisti a disertare questo tradizionale appuntamento del capo del governo con la stampa. La contestazione, come è noto, ha riguardato l’approvazione nei lavori parlamentari di un emendamento volto a introdurre «il divieto di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare».

La presidente ha subito voluto spiegare che con esso si intende riportare l’art.114 c.p.p. al suo perimetro originario «in forza del quale è vietata la pubblicazione anche parziale degli atti del dibattimento celebrato a porte chiuse» (sic!).

Difficile capire cosa possa aver provocato questa affermazione priva di significato, non soltanto giuridico: uno sconsiderato ghost writer deve aver confuso commi e senso dell’art.114 c.p.p., trascinando la premier in un vistoso anacoluto normativo. Non dovrebbe, ma può capitare.

Ironia fuori luogo

Dopodiché l’on. Meloni, ritornando sulla strada già battuta dai sostenitori dell’emendamento, ha ricordato come la riforma Orlando del 2017 ha previsto la pubblicabilità dell’ordinanza cautelare, aggiungendo con la simpatica, sferzante ironia di cui è certamente dotata, di non ricordare proteste contro il bavaglio alla stampa prima del 2017.

Ironia, però, in tal caso fuori luogo perché, sebbene molti abbiano mostrato di ritenere il contrario, l’ordinanza di custodia cautelare è sempre stata pubblicabile. La c.d. riforma Orlando ha soltanto esplicitato ciò che già era desumibile da una corretta interpretazione della disciplina normativa preesistente, dimostrando come nella produzione legislativa quod abundat viziat, non foss’altro perché induce in errore, come in questo caso, l’interprete.

D’altra parte, se davvero dell’ordinanza cautelare fosse stata vietata la pubblicazione anche prima della disposizione introdotta nel 2017 per consentirla, sarebbe bastato sopprimere tale disposizione per ripristinare il regime precedente, senza bisogno di prevedere un nuovo divieto.

Tale divieto, poi, a giudizio della presidente e dei proponenti, sarebbe funzionalmente preordinato alla tutela della presunzione di non colpevolezza che deve assistere l’accusato sino alla sentenza irrevocabile. Per la verità riesce difficile cogliere un tale nesso.

Se davvero la pubblicazione dell’ordinanza cautelare costituisse pregiudizio per la presunzione di innocenza, più che la tutela di tale presunzione la nuova norma ne garantirebbe soltanto un’offesa differita, dal momento che dell’ordinanza è prevista la pubblicazione nel prosieguo del procedimento.

Non solo, ma nella stessa logica, il divieto di pubblicazione si dovrebbe a maggior ragione estendere anche alla richiesta e al decreto di rinvio a giudizio che non si accontentano più, come l’ordinanza cautelare, della sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, ma presuppongono espressamente «una ragionevole previsione di condanna».

La presidente del Consiglio ha voluto comunque rassicurare i giornalisti: ad emendamento approvato, potranno sempre fornire informazioni sul provvedimento e sulle ragioni che lo sostengono.

Sfugge allora la ragione per cui una ricostruzione giornalistica (consentita), ottenuta spesso ricorrendo a informazioni ulteriori rispetto a quelle contenute nell’ordinanza e non raramente ad accenti sensazionalistici e a dettagli idonei a solleticare la curiosità del lettore, dovrebbe risultare meno lesiva della pubblicazione dell’ordinanza del giudice (vietata).

Tanto più se si tiene presente che questi è oggi giustamente tenuto, in base ad una recentissima riforma – introdotta, ironia della sorte, in applicazione della direttiva europea sulla presunzione di innocenza – «a limitare il riferimento alla colpevolezza della persona (…) alle sole indicazioni necessarie per soddisfare i presupposti» per l’adozione del provvedimento.

Difficoltà di senso

Insomma, il divieto che si vorrebbe introdurre appare norma in difficoltà di senso.

Se venisse approvata, la realtà si incaricherà di dimostrare in modo imbarazzante, dopo tanto clamore, che la presunzione di innocenza non risulterà maggiormente tutelata, come vorrebbero i suoi sostenitori, ma anzi più facilmente offuscata; che non si registrerà alcun “bavaglio” per la stampa, come vorrebbero i suoi detrattori, che anzi sarebbero maggiormente giustificati nel discostarsi dall’auspicabile asciuttezza giuridica del provvedimento giudiziario, cui non potrebbero più riferirsi neppure per estratto; che si registrerà soltanto, purtroppo, uno scadimento del livello non certo esaltante della nostra cronaca giudiziaria e un ridotta possibilità di controllo da parte della collettività su come viene esercitato in suo nome il terribile potere di restringere la libertà personale.

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