Antifascismo. In questa parola si trova la radice più limpida della nostra identità, Antonio Scurati non ha potuto pronunciarla ieri sera sulla tv di stato. Risultato: il suo testo, cancellato all’improvviso dalla programmazione di “Che sarà” su Raitre, è rimbalzato ovunque, letto a reti unificate e, per chiudere il caso, perfino Giorgia Meloni è stata costretta a pubblicarlo.

Troppa grazia, sarebbe bastato condividerne i contenuti. Chi ha paura dell’antifascismo ha il solo merito di soffiare via quel tanto di patina retorica che è stata depositata addosso da ritardi, incoerenze, tradimenti e di restituirla alla sua freschezza.

«Un 25 aprile quotidiano, promessa e giuramento», cito qui un grande scrittore, Maurizio Maggiani, nel suo Calendario intimo della Repubblica appena pubblicato da Feltrinelli. Questo fa paura: non la lotta di Liberazione monumento, cui si offre una corona di fiori e via, ma la Resistenza ora e sempre, presente, viva. Soprattutto quando le libertà di tutti finiscono sotto tiro.

La convocazione dell’Antimafia

Domani sarà scritta un’altra pagina nera, quando il direttore di questo giornale, Emiliano Fittipaldi, sarà chiamato in audizione in commissione Antimafia. Leggete sul web il comunicato: «Lunedì 22 aprile, alle ore 14.30, la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, nell’ambito del filone di inchiesta sulle vicende relative al cosiddetto “dossieraggio” di esponenti politici e del mondo economico, svolge l’audizione di Emiliano Fittipaldi, direttore del quotidiano “Domani”». Mettete insieme: mafie, associazioni criminali, dossieraggio. Sono esattamente l’opposto di giornalismo, libertà di informazione, libertà di stampa.

Cosa rivela questo spettacolo, parlamentari che interrogano un direttore (non indagato) sulle fonti dei suoi giornalisti, con una sproporzione di mezzi inaudita?

In tempi lontani, tra gli anni Sessanta e Settanta, la commissione Antimafia catalogò come non pubblicabili le schede nominali sui rapporti tra politici e mafiosi, uscirono solo nel 1989 su iniziativa dell’allora presidente, il comunista Gerardo Chiaromonte.

All’epoca le commissioni di garanzia erano uno strumento di controllo dell’opposizione, non come ora una clava in mano al governo, e i giornalisti chiedevano ai politici di rendere pubblici i documenti riservati.

Oggi, nel vero mondo al contrario, sono i politici che si arrogano la facoltà di interrogare i giornalisti sulle notizie pubblicate, confondendo il nostro lavoro, che è alla luce del sole, con il dossieraggio, che è esattamente il suo opposto. In totale spregio della Costituzione italiana, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che riconosce la libertà di ricevere e comunicare informazioni o idee senza ingerenze delle autorità pubbliche (articolo 11) e dell'European media freedom act, da poco approvato dal parlamento europeo, che tutela il pluralismo dei media o l’indipendenza editoriale.

«Le fonti equivalgono a “materie prime” per i giornalisti», si legge, «è fondamentale tutelare la capacità dei giornalisti di raccogliere, verificare e analizzare le informazioni, trasmesse o comunicate in via confidenziale, sia offline che online».

Viviamo in un paese in cui la libertà di informazione è a rischio anche per ragioni interne: editori per caso, senza idee e senza progetti, giornali comprati e venduti, direzioni pavide, manager mediocri, redazioni cui spesso è affidato il compito di tenere viva la dignità di una testata laddove questa è stata calpestata dai proprietari.

Attacco del potere

A questo assedio interno, si aggiunge l’attacco del potere politico di turno, che ne conosce bene la fragilità, ma preferisce addossare a quel che poco che resta dell’informazione non allineata la colpa delle sue difficoltà, la responsabilità dei suoi scandali, dei suoi abusi di posizione, con rilevanza giudiziaria o no.

Un potere che pretende di dettare il verbo, che non tollera domande ma in compenso interroga i giornalisti non perché hanno scritto notizie false, ma perché hanno scritto notizie vere.

Di fronte all’assalto ogni singolo giornalista è chiamato a difendersi da sé, a custodire un pezzo di libertà sua per tutelare quella di tutti, ovunque si trovi. Ma il livello collettivo è un’altra cosa, non si può assistere passivamente. Anche per questo occorre resistere, per un 25 aprile quotidiano, promessa e giuramento, in un paese per cui per troppi è sempre l’8 settembre.

© Riproduzione riservata