Vent’anni di indignazione permanente contro la casta, le poltrone, i vitalizi, i furbetti, le pensioni d’oro e quant’altro ci hanno regalato infine anche la rinuncia del premier Mario Draghi al compenso da presidente del Consiglio. Quando si dice il progresso. Il gesto è fatto per essere detto: è quasi quello che i linguisti chiamano un “atto performativo”, un’azione che non descrive uno stato delle cose ma esaurisce il suo senso nel fatto stesso di essere proferita.

Draghi non si è fatto certo prendere dal pauperismo esibizionista che nel 2018 ha fatto annunciare a Giuseppe Conte sul Blog delle Stelle che avrebbe guidato il paese a prezzo di saldo, cianciando di «buon esempio» ed «equità», ma ha lasciato che la stringata nota di rinuncia si depositasse senza strepiti sul sito della presidenza del Consiglio. Internet ha fatto il resto.

La differenza di stile, tuttavia, non cancella l’analogia sostanziale. Il Draghi che salva la patria pro bono risponde alla stessa immagine interiorizzata del buon governante promossa dall’avvocato dal popolo e dai tagliatori di vitalizi, glorifica il civil servant senza macchia e senza 730, esalta lo spirito popolare del leader che parla la stessa lingua dei percettori di reddito di cittadinanza. Ovviamente la questione non è né personale né quantitativa.

Le decine di migliaia di euro a cui rinuncia non stravolgono l’economia domestica di Draghi e non risanano i conti pubblici, ma non deve sfuggire la rilevanza del messaggio che accompagna il gesto: il buon leader è colui che rinuncia anche al compenso che gli spetta. Questo messaggio simbolico, e la politica vive anche di simboli, carezza lo spirito del tempo nel verso del pelo, ed è destinato ad alimentare una distorsione che ricadrà anche su chi occuperà palazzo Chigi dopo Draghi.

Un premier che accetta lo stipendio, magari addirittura integrale (brivido), sarà meno virtuoso di quello che vi ha rinunciato? Avrà meno a cuore la cosa pubblica? Vivrà il suo servizio in modo più impuro? Sarà tacciato di egoismo, di cupidigia, di peculato?

Denaro e buon governo

Draghi non è il primo premier a fare il gran rifiuto, ma Mario Monti aveva l’indennità da senatore a vita – tecnicamente compatibile, ma cumulare non stava bene con il Loden – e Paolo Gentiloni aveva già lo stipendio parlamentare. Ma questi sono dettagli, tecnicismi.

La questione essenziale è che il denaro è la prova di un legame fiduciario, è sanzione della responsabilità, e compensare il lavoro è misura di equità. Una tesi intuitiva in favore di salari generosi per i governanti prende la questione dal punto di vista degli incentivi.

Se il servizio politico è pagato molto meno di quanto un servitore dello stato potrebbe guadagnare nel settore privato, si scoraggia la discesa in politica dei talenti migliori. Questo ragionamento non si applica, naturalmente, al caso specifico di Draghi, che non ha accettato di fare il premier perché aveva bisogno di un lavoro, ma cedere all’idea che il compenso congruo per la guida di un governo siano le statue equestri e la vita imperitura nella sacra memoria della nazione è un pensierino ingenuamente populista. 

Ed è peraltro contraddetto da una notevole mole di studi scientifici. Economisti e politologi si interrogano da tempo sulla questione del compenso per i governanti, concludendone generalmente che stipendio e buon governo vanno spesso di pari passo.

Renee Bowen e Cecilia Mo, rispettivamente economista di Stanford e politologa della Vanderbilt University, hanno notato in una loro ricerca che «quando i rappresentanti sono pagati di più sono più interessati a mantenere il proprio posto ed è più probabile che perseguano politiche nell’interesse dei cittadini», da cui si deduce che il compenso del governante tende a contribuire all’interesse dei governati.

È l’esatto opposto di quello che sosteneva Conte: per lui il taglio dei vitalizi era il segno che «l’interesse dei cittadini» tornava finalmente al centro della politica, dopo la stagione dell’avidità e degli interessi privati.

Draghi non è scivolato nella bolsa retorica anticasta, merito non da poco, ma ha perso un’occasione – minore e tuttavia rilevante – per inserire un elemento di normalità nell’estenuante stagione delle poltrone tagliate e delle scatolette di tonno aperte.

 

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