Prima del 9 febbraio, ufficialmente, non si saprà niente: venerdì la deposizione della premier Giorgia Meloni davanti al giurì d’onore della Camera si è conclusa con la promessa del presidente Giorgio Mulé di non convocare ulteriormente né la presidente del Consiglio né Giuseppe Conte, che aveva originariamente chiesto il giudizio. Il giurì, organismo interno alla camera d’appartenenza, deve decidere se sia stato leso l’onore del parlamentare che vi si rivolge: nel caso specifico, il presidente del M5s, che ha accusato Meloni di aver mentito sulla vicenda della ratifica delle modifiche al trattato del Mes, decisa secondo la presidente quando il governo Conte II non era già più in carica. 

Nell’audizione la premier ha ripercorso i fatti dal suo punto di vista e ha risposto ad alcune osservazioni della “corte” che l’ascoltava. Adesso i deputati coinvolti esamineranno le dichiarazioni dei due leader e produrranno una relazione nelle prossime settimane. La questione dirimente è il documento con cui il ministro degli Esteri dell’epoca, Luigi Di Maio, aveva autorizzato a fine gennaio 2021 l’ambasciatore a Bruxelles a procedere alla firma delle modifiche al trattato, che secondo Meloni è avvenuta dopo la caduta del governo: aspetto contestato da Conte (e da Di Maio), che invece indica come momento dirimente l’ultimo passaggio parlamentare, a inizio dicembre, quando il governo era ancora più che nel pieno delle sue facoltà. 

Al di là del merito, su cui la commissione stenderà una relazione non soggetta a nessuna discussione né voto in aula – una persona che conosce bene il M5s lo definisce «uno scontro inconsistente come quello tra Zuckerberg e Musk al Colosseo» – l’ex premier ha già raggiunto il suo primo obiettivo. «Nessuno ha mai portato davanti al giurì un presidente in carica» dicono i suoi, «e poi continuiamo a far parlare del Mes, che altrimenti poteva essere una vicenda chiusa con il voto di fine anno (quando il parlamento aveva bocciato la ratifica delle modifiche al trattato, ndr)». Insomma, le conseguenze pratiche saranno pure scarse, ma l’eco mediatica, sperano a Campo Marzio, avrà tutta un’altra portata. 

Attirare l’attenzione

Tagliato fuori dal duello tv con Elly Schlein – di cui, notano i Cinque stelle, si è tornato a parlare con un tempismo sospetto proprio in questi due giorni – la missione di Conte è di riconquistare centralità in ogni modo possibile. Motivo per cui si è fatto di necessità virtù: «Si è divertito a fare l’avvocato» spiegano dal Movimento citando il tomo di cento pagine che Conte ha consegnato al tribunalino di Montecitorio. «Gli ha mollato chili di scartoffie» è la versione più laica dei Fratelli d'Italia, visibilmente infastiditi dal procedimento, senza conseguenze pratiche ma accompagnato da lungaggini burocratiche in cui Conte ha trascinato la premier. «Hanno voluto coinvolgerci in questa questione di lana caprina, ma Giorgia potrebbe decidere di non lasciar correre stavolta» dicono i meloniani, con un certo stupore nei confronti del presidente Lorenzo Fontana. Qualcuno arriva a parlare di forzatura, anche se al leghista viene concesso che «se non avesse fatto partire il giurì, Conte avrebbe fatto la vittima molto più di così». 

Ma se la vicenda dovesse chiudersi in maniera positiva per Conte, ecco che la campagna elettorale del Movimento avrebbe nuovo carburante: poter sbandierare una bugia pubblica della premier pronunciata di fronte al parlamento permetterebbe al premier di rafforzare per contrasto la sua immagine di “europeista critico” (copyright di Conte stesso) onesto. Sarebbe un gran colpo per la sua squadra, attivissima in queste settimane, anche se molti hanno notato il basso profilo dell’ex stella polare Rocco Casalino, che si è anche guadagnato di recente un inatteso elogio da Paolo Mieli, quasi scomparso dopo osservazioni ingenerose – poi smentite – sugli esperti che assistono Schlein nella sua comunicazione politica. 

Un verdetto positivo garantirebbe a Conte anche la possibilità di rivendicare un’autorevolezza in Europa che secondo il Cinque stelle Meloni non può vantare: «Noi siamo quelli del Pnrr, noi abbiamo portato in Italia i fondi e convinto gli altri alla solidarietà» è il tasto su cui continuano a battere i fedelissimi di Conte. Una bandiera attorno a cui raccogliersi, che fa dimenticare perfino l’assenza delle regionarie per le prossime amministrative, per cui l’ex premier ha presentato a scatola chiusa alleanze, candidato alla presidenza e liste. Non proprio l’originario stile grillino, ma la via per le europee è tracciata. 

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