Erano partiti insieme, protagonisti inaspettati della prima stagione populista della politica italiana. Uno, professore sconosciuto tirato fuori dal cilindro dal Movimento 5 stelle, oggi è il numero due del centrosinistra e contende a Elly Schlein i voti dall’ala più radicale. L’altro, uomo forte del governo gialloverde che chiedeva pieni poteri a petto nudo dal Papeete, combatte per la sopravvivenza politica.

Due parabole intrecciate con esiti inaspettati. Giuseppe Conte si ritrova oggi con un partito personale libero dal rumore di fondo degli altri big che ai tempi dei suoi due governi lo avevano logorato dall’interno del M5s. L’ex avvocato del popolo ha di fatto scalato il Movimento, è sopravvissuto alla scissione di Luigi Di Maio e alla nascita del suo Impegno civico, successivamente naufragato alle elezioni del 2022. Ha poi relegato il fondatore del partito, Beppe Grillo, a un ruolo di consulenza che lo lascia ben lontano dalle questioni quotidiane. Un accordo costoso in termini di retribuzione del comico: ma dopo aver “comprato” il suo passo indietro, Conte può dormire sonni tranquilli per quanto riguarda la fedeltà dei suoi. La compagine parlamentare del M5s contiano è di tutt’altra estrazione rispetto all’ultima legislatura: i rapporti di forza sono chiari e fronde interne o riunioni carbonare sono ormai cosa del passato.

«Tutti i parlamentari hanno ben presente a chi devono la loro elezione» spiega chi conosce bene il Movimento. «I tempi delle azioni spettacolari delle prime due legislature sono finiti». Ed effettivamente ormai a essere protagonista dei gesti più teatrali nel gruppo, durante il dibattito in aula, è proprio il presidente Conte, che urla tanto da essere ripreso per i suoi «ululati» (copyright Fabio Rampelli) e strappa testi di legge a favore di telecamera, mostrando un certo senso del melodramma.

Crescita inaspettata

L’ex presidente del Consiglio, che veniva trascinato via dal suo portavoce Rocco Casalino per evitare le domande dei cronisti, è riuscito a sfilare al Pd una parte di elettorato della sinistra radicale e tallona i dem nei sondaggi. Il rapporto con i democratici è ambiguo, ma a soffrire delle incongruenze tra le campagne elettorali sul territorio e quella per le europee sembra essere più il Nazareno che via di Campo Marzio.

«Grazie alla sua linea ondivaga Conte è più libero di cavalcare la posizione di cui ha bisogno in quel momento, dalle priorità della borghesia centrista quando si parla di immigrazione al pacifismo più puro per conquistare l’estrema sinistra. Schlein ha molto meno margine di manovra» dice un ex parlamentare. Effettivamente la segretaria – che pure si è presentata alle primarie con una linea radicale premiata soprattutto dai non iscritti al partito che hanno votato ai gazebo – ha elettori e parlamentari molto più attenti alle oscillazioni eccessive.

Basta vedere il voto sul nuovo invio di armi in Ucraina. La scelta del Pd di non votare la mozione di maggioranza (quando era opposizione al governo Draghi FdI lo aveva sempre fatto) per non allargare troppo la distanza dai Cinque stelle, ormai apertamente contro gli aiuti militari, ha provocato la defezione di un gruppo di parlamentari alla Camera e al Senato e grosse polemiche. Anche la scelta di non tenere le primarie per il voto regionale in Sardegna, accettando l’imposizione della candidata Cinque stelle, non ha fatto guadagnare a Schlein le simpatie dei dem locali. La vita di Conte da quel punto di vista è molto più facile: nonostante due alleanze agli antipodi, prima con la Lega e poi con la sinistra, gli elettori sono rimasti incollati all’ex premier come alla carta moschicida. E ora, a via di Campo Marzio guardano alle europee con «cauto realismo».

È vero che i Cinque stelle vanno meglio alle politiche e l’impressione è che la scelta di Conte di non candidarsi – sarebbe eventualmente un derby a sinistra in cui il presidente M5s rischierebbe parecchio, viste le scarse performance alle europee del passato – complica ulteriormente una strada già difficile. Ma quando cavalca la vicenda Ilva e agita la questione morale – «su quella loro hanno il Qatargate e faticano a starci dietro» si dice nel partito – l’ex premier sembra ormai a suo agio come quando firmava i decreti Salvini del Conte I.

All’epoca lui, Di Maio e Salvini erano un trio inseparabile: il rapporto si era cementato con la tragedia del Ponte Morandi, ma la tenera amicizia ha iniziato a incrinarsi con il caso Siri, percepito da Conte (e dal suo spin doctor Casalino) come un danno intollerabile alla sua immagine.

Da quel momento la relazione è degenerata fino ad arrivare nell’estate 2019 e alla pirotecnica resa dei conti in parlamento dopo la quale Conte ha presentato le dimissioni e ha ottenuto un nuovo incarico per formare un governo con il Pd. E ha messo fine per sempre alle ambizioni di pieni poteri del fu Capitano.

Destino segnato

«Ma a forza di tenere il piede in due scarpe un problema di credibilità a un certo punto si crea» dicono trionfanti dalla Lega, sicuri che il vero antieuropeismo, duro e puro, è solo quello contenuto nel programma della Lega. «La guerra contro la grande finanza europea l’abbiamo inventata noi» tuonano (Giancarlo Giorgetti è l’eccezione che conferma la regola, parrebbe). In effetti si contenderanno con Conte il tema in campagna elettorale e sono consapevoli che la Lega è in difficoltà, ma il Movimento un po’ di più, nonostante un quadro dei sondaggi più favorevole.

Il partito di Salvini ha almeno un gruppo su cui fare affidamento in Europa. Che poi Identità e democrazia non abbia nessun tipo di possibilità di entrare nella coalizione di governo è un dettaglio che per i leghisti è quasi da considerare una nota di merito.

«Se dovessero provare a fare una coalizione Ursula antidestra sarebbe la riedizione del governo Draghi in scala europea. Noi però a quel punto saremmo finalmente dalla parte giusta: si è visto quanto bene ha portato a Meloni stare all’opposizione» dice un senatore del Carroccio. Il destino del Movimento in Europa è tutto da scrivere: le trattative con i Verdi, più una storia infinita che un negoziato politico, riprenderanno dopo il voto, giurano dal partito. Non è dato sapere con quali prospettive di successo, «ma tanto, l’obiettivo di Conte è in patria», dicono nel Movimento.

Come lui, ha scelto di non candidarsi anche Salvini, timoroso dell’impietoso confronto con Meloni che rischierebbe qualora la premier decidesse di correre in prima persona. Il ministro delle Infrastrutture alle europee si gioca tutto. Perfino i suoi uomini più stretti accusano una certa stanchezza, soprattutto chi siede in parlamento. «La cosa più eccitante dell’ultimo anno è stata la bocciatura del Mes» racconta un parlamentare navigato. La nostalgia dell’opposizione morde e nessun exploit elettorale (solo auspicato, per il momento) del generale Roberto Vannacci può compensarla. La fortuna di Salvini è che all’orizzonte continua a non affacciarsi nessun rivale tangibile: chi viene dalla vecchia Lega spera ancora che la tempesta meloniana possa passare e le sedi di partito possano resuscitare a nuova vita prima o poi. Ma per una rinascita il 2024 deve almento portare l’approvazione dell’autonomia, una legge che dia il via libera al terzo mandato per presidenti di regione e sindaci e un risultato alle europee sopra la soglia psicologica del dieci per cento.

Obiettivi a cui Salvini, secondo alcuni, si sta dedicando troppo poco. «Sennò – dice un vecchio esponente della Lega che ha iniziato la sua militanza con Umberto Bossi – bisogna vedere come vanno i congressi. E lì Matteo rischia, anche in Lombardia».

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