Le analisi sulle intenzioni, le motivazioni non dichiarate, gli opportunismi, le doppiezze e le prese di posizione strumentali dei politici che fanno giravolte sono sempre doverose e noiose.

Chi ha tempra e mestiere spiegherà la raffinata o suicida strategia politica sottesa alla tardiva resipiscenza di Luigi Di Maio, che in una lettera al Foglio si è scusato per le modalità «grottesche e disdicevoli» con cui lui e altri del Movimento 5 stelle (e non solo) cinque anni fa hanno attaccato (eufemismo) l’allora sindaco di Lodi, Simone Uggetti, arrestato per turbativa d’asta e poi assolto.

Chi invece brama di sapere se nell’intimo Di Maio si sia davvero pentito per «l’utilizzo della gogna come strumento di campagna elettorale», dovrà interpellare (o intercettare: a qualcuno piace così) il suo confessore, se ne ha uno, e dubito che ne caverà qualcosa.  

Qui mi accontento di un’operazione molto più modesta e ingenua: leggere la lettera di Di Maio at face value, come dicono gli anglosassoni, cioè per il suo valore nominale, riga per riga, senza sforzarmi di cogliere quello che c’è in mezzo.

Lette così, le parole di Di Maio sono estremamente serie, utili, addirittura grandiose e rivoluzionarie se si pensa al contesto in cui sono maturate. Il ministro degli Esteri non si è scusato pubblicamente per un brutto incidente di percorso: si è scusato per un errore che è il diretto discendente della ragione sociale del M5s, il perno della sua esistenza. E molte altre forze politiche sono corresponsabili nell’aver recitato la parte della tricoteuse, se non direttamente del boia. 

«L’imbarbarimento del dibattito associato ai temi giudiziari» di cui Di Maio oggi si pente è da molto tempo rappresentato come virtù suprema, garanzia di onestà, specchio di giustizia.

Dopo l’arresto del sindaco del Pd un situazionista Danilo Toninelli, direttamente dal palazzo di giustizia di Lodi, diceva che Uggetti «ha confessato» un fatto che non sussiste, Roberto Fico lamentava che il sindaco «continua a gestire il comune» dal carcere, Stefano Buffagni spiegava che «gli arrestati del Pd non fanno più notizia», il gruppo del M5s alla Camera scriveva con soddisfazione che «l’arrestato del giorno è Simone Uggetti», premurandosi poi di notare che «il #M5S aveva già denunciato i fatti per cui oggi è stato arrestato il sindaco di #Lodi» (giustizia predittiva, evidentemente), Nicola Morra si domandava «chi sarà il prossimo?», Laura Castelli rivendicava il grande lavoro del  Movimento per propiziare l’arresto: «Il #m5s fa un esposto e il sindaco di #Lodi, grazie al lavoro degli inquirenti, viene arrestato. Inutili sti grillini...», uno sdegnato Alessandro Di Battista twittava: «Il garantismo del Pd? Garantire sempre la poltrona anche agli arrestati» e Beppe Grillo sentenziava che «il Pd affonda nella piscina di Lodi». Per pubblicare l’elenco integrale servirebbero dei server di rinforzo.

Un giurista normodotato di una università liberal americana a scelta potrebbe sostenere che questa roba è assimilabile all’hate speech, somiglia, per analogia, alla violenza fisica e come tale dovrebbe portare con sé conseguenze legali per chi la pratica. Ma per i lettori “alla lettera” della lettera di Di Maio (scusate il bisticcio) non importa, perché la questione che solleva è pregiuridica e prepolitica.

Le esternazioni ignobili che la classe politica si sente in diritto di produrre all’apparire delle prime carte dell’accusa ledono la qualità del dibattito civile anche a prescindere dall’accertamento delle responsabilità penali. È una questione di decenza umana e decoro pubblico, un fatto di estetica prima ancora che di etica o di codice penale.

Per spingere l’argomento ancora un passo più in là: l’imbarbarimento che oggi Di Maio ammette sarebbe esecrabile anche se Uggetti fosse stato condannato per i reati di cui era accusato. Poi è stato assolto, fatto centrale della vicenda, ma è il comportamento della classe dirigente, media inclusi, verso indagati e imputati che dà la misura reale della barbarie. Il principio di giustizia retributiva su cui si poggia chi oggi vorrebbe la gogna per quelli che la invocavano, sbagliando, ieri, offre solo una soddisfazione effimera.

Di Maio ha fatto tutto questo per rifarsi una verginità in vista delle sue nuove ambizioni politiche? Lo ha fatto perché con il passare del tempo anche i suoi amici sono finiti nel tritacarne giudiziario? Credo che a Roma in questi casi dicano “sticazzi”. Un atto giusto non cessa di essere giusto perché viene compiuto per le ragioni sbagliate. 

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