La lista degli sponsor è lunga e articolata, e non va confusa con quella delle istituzioni che hanno dato il patrocinio. Dopo il passo indietro della regione Lazio deciso dal presidente Francesco Rocca, il Roma Pride può contare sull’appoggio del comune di Roma – il sindaco Gualtieri ha preso parte a un incontro alla Pride Croisette e sarà in prima fila alla parata di oggi – e sul sostegno di una quindicina di ambasciate straniere. Al corteo per le vie della capitale si attendono oltre 40mila persone. le ambasciate tedesca e messicana partecipano con un loro carro, la Spagna ha confermato il suo sostegno morale. Altre istituzioni governative con sede a Roma (Regno Unito, Francia, Stati Uniti, Canada) intervengono con una delegazione.

Ma l’elenco più vario e sostanzioso è quello di chi finanzia la parata, con multinazionali dell’intrattenimento accanto ad aziende alimentari italiane. Tra gli sponsor figurano Walt Disney Italia, che ci sarà con un proprio carro, e acqua Vitasnella; le birre Heineken e Peroni ma anche l’italiana Tim, che sui social ha adottato un logo arcobaleno. Fra i semplici sostenitori pasta Garofalo e il marchio di preservativi Durex, il colosso finanziario American Express e persino Apple, oggi in strada con una delegazione di dipendenti selezionati in tutto il mondo. Un panorama analogo si vedrà al Milano Pride del 24 giugno, ancora più “inclusivo” e patinato dell’appuntamento romano: sotto l’Arco della Pace ci saranno Coca Cola e PayPal, Generali e la Juventus, Sky e UniCredit.

Sponsor e supporter

Una tale abbondanza di marchi e loghi arcobaleno può apparire straniante a occhi disattenti, legati all’immagine “folcloristica” dei vecchi Gay Pride e alle polemiche sul patrocinio e sull’“utero in affitto”. Ma il sostegno alla comunità Lgbtqi e alle sue cause, da parte di imprese grandi e piccole, non è nuovo. Ed è certamente sensato dal punto di vista commerciale. Lo sanno bene gli organizzatori del Pride: «La parata nella capitale è un’opportunità imperdibile per posizionare il loro brand presso un target strategico, numeroso e attento alla responsabilità sociale delle aziende», dicono dal circolo di cultura omosessuale Mario Mieli. Secondo i dati Oms, la comunità Lgbt+ in Italia è composta da 6 milioni di persone, pari a circa il 10 per cento della popolazione, e «ha un potere d’acquisto di un terzo superiore alla media».

Non stupisce allora che lo stesso Roma Pride proponga varie opzioni per sponsor e sostenitori. Si parte dal pacchetto “supporter”, che garantisce l’inserimento del logo aziendale sul sito della manifestazione, un post sui canali social dell’evento e l’accesso alla parata con una delegazione a piedi. Gli “sponsor” ottengono tre post sui canali social e la promozione del brand al corteo e agli eventi della Gay Croisette, mentre i “main sponsor” – da Disney in giù – acquistano il pacchetto completo: oltre a partecipare alla parata con un proprio carro commerciale, possono distribuire gadget e materiale promozionale per l’intera durata del Pride.

Il rainbow washing

Ma quanto è autentica questa presa di posizione delle aziende? In che misura è un’operazione di immagine e quando invece ha effetti concreti? Schierarsi per i diritti civili, all’improvviso e per poche settimane l’anno, alimenta il sospetto di rainbow washing. Il concetto, analogo a quello di pinkwashing, indica l’atto di utilizzare i colori dell’arcobaleno per esibire il proprio sostegno a favore della causa Lgbt, acquisendo credibilità da parte dei consumatori, ma con il minimo risvolto pragmatico. Durante il mese del Pride molti marchi “ripuliscono” la loro immagine per dare l’illusione di occuparsi di temi sociali, anche quando gli sforzi a favore della causa sono assenti o minimi.

«Per le multinazionali e per molte imprese la parata del Pride è una vetrina, un’occasione di promozione non troppo diversa da un’expo o dal Salone del mobile. Sono aziende spesso guidate da maschi che raramente, nei fatti, realizzano politiche inclusive» dice Paolo Iabichino, direttore creativo e scrittore pubblicitario. Chi ha davvero a cuore questi temi non aspetta giugno per comunicarlo e non teme di prendere posizione sul serio, anche in senso politico: «Durante gli anni di Trump, quando i dipendenti di Patagonia venivano arrestati alle proteste ambientaliste, l’azienda di abbigliamento pagava le cauzioni per farli uscire di prigione». È la differenza tra l’impegno praticato e l’impegno solo narrato.

Ma funziona davvero?

Dedicarsi al rainbow washing può essere redditizio per le imprese ma può anche essere rischioso: l’esibizione di un attivismo di facciata spesso si rivela inefficace e a volte anche controproducente. Le aziende mirano a compiacere la Generazione Z, i giovani che affollano i Pride e sono sensibili ai diritti civili. «Ma a loro fa lo stesso effetto di uno spot in tv, è solo rumore di fondo: ragazze e ragazzi non si affezionano a una marca perché ricevono una bottiglietta con l’etichetta arcobaleno al Pride» continua Iabichino, fondatore con Ipsos dell’Osservatorio Civic Brands. Il giorno dopo se lo sono già dimenticati, a meno che il brand non si ricordi di quei temi nel resto dell’anno.

Un altro rischio per le imprese arriva dal fronte opposto, da quei consumatori che sono contrari all’allargamento dei diritti. In questo caso non conta se l’azienda fa seguire politiche inclusive a proclami inclusivi, basta il posizionamento pro Lgbt a scatenare un possibile effetto boomerang. È di pochi giorni fa – negli Stati Uniti – la notizia del crollo in Borsa della birra Bud Light, che ha ceduto il 19 per cento dopo un boicottaggio incitato da personaggi della destra americana. La sua colpa? Aver collaborato con l’influencer trans Dylan Mulvaney per una propria pubblicità.

Negli stessi giorni vari negozi di Target sono stati vandalizzati da attivisti di estrema destra: la catena di grandi magazzini aveva lanciato una sua linea di prodotti per il Pride Month. Una sorte simile sta toccando ad altre catene commerciali, da Walmart a Kohl’s. Per un numero crescente di marchi il brand activism degli ultimi anni non è più un’opzione attraente. In tempi di “guerre culturali”, molte aziende si chiedono se sia il caso di continuare a puntare sui diritti o se ora convenga desistere e non farsi troppo male.

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