L’Italia spicca tra le democrazie a causa della frequenza di riforme elettorali. Dal secondo dopoguerra, si sono avvicendati quattro sistemi elettorali (più due riforme mai applicate): proporzionale con voto di preferenza nella prima fase del sistema partitico (1948-1992), misto maggioritario (1993-2005; 2017-) e proporzionale con premio di maggioranza (2005-2017). Cui si aggiungono cambiamenti minori, ma significativi, tentativi di modifica per via parlamentare o referendaria.

La Prima Repubblica

Nel 1946 per la Camera dei deputati entrò in vigore un sistema proporzionale con voto di preferenza (fino a quattro). La formula di allocazione dei seggi era particolarmente proporzionale (Imperiali), non esistevano soglie di sbarramento esplicite se non due limitazioni minori per l’allocazione dei seggi attraverso i resti, ossia quelli non attribuiti dopo la prima conta (circa sessanta). Infine, la dimensione dell’assemblea comparativamente ampia consentiva potenzialmente di estendere a maggiori attori le possibilità di accesso alla rappresentanza.

La legge truffa

Sebbene non sia mai stata applicata, l’emanazione – nonostante la veemente opposizione dei partiti comunista e socialista – e poi l’abrogazione della legge elettorale truffa del 1953 va annoverata tra le riforme elettorali. La norma stabiliva che 380 dei 590 seggi (65 per cento) alla Camera fossero assegnati al partito o alleanza che avesse ottenuto più del 50 per centodei voti. Una proposta simile fu adottata in epoca fascista, nel 1924: la legge Acerbo assegnava al partito più votato i due terzi dei seggi purché il partito avesse ottenuto almeno il 25 per cento dei voti. Nel 1953, la coalizione tra Dc, Psdi, Pli e Pri raggiunse il 49,2 per cento con la Dc partito principale (40,1 per cento), e il premio non scattò per 204.742 voti.

Il referendum del 1991

Il referendum abrogativo (9 giugno 1991) modificò una componente critica: ridusse a una le preferenze esprimibili. La quasi totalità (95,6 per cento) di quanti si recarono alle urne (65,1 per cento), nonostante gli inviti ad “andare al mare” di Bettino Craxi e di Umberto Bossi, espresse parere favorevole segnando una pietra miliare e lo scricchiolare del sistema partitico. Il catalizzatore del cambiamento fu il rifiuto del governo di introdurre una nuova legge elettorale che accompagnasse la riforma degli enti locali del 1990.

Tutti contro il proporzionale

Gli eventi post 1989 e Tangentopoli portarono all’adozione nel 1993 di una nuova legge elettorale. L’82,7 per cento degli elettori (77,1 per cento di affluenza) rispose Sì alla domanda referendaria, eliminando al Senato la parte proporzionale della distribuzione dei seggi allorché nessuno avesse avuto il 65per cento. Sebbene screditato, il parlamento fu costretto a legiferare prima di andare alle elezioni anticipate.

La nuova legislazione introdusse un sistema misto maggioritario: tre quarti dei seggi (475) assegnati in collegi uninominali con sistema plurality (maggioranza semplice), e il restante quarto (155) su liste di partito con il metodo proporzionale (liste chiuse, ai partiti che ottenessero almeno il 4 per cento a livello nazionale). Al contrario, per il Senato, ogni regione rappresentava un distretto separato e i voti non erano raggruppati a livello nazionale (secondo una discussa interpretazione dell’articolo 57 della Costituzione).

I due livelli (maggioritario e proporzionale) erano legati attraverso un sistema di "trasferimenti di voti negativi” (scorporo). La presenza di due livelli di attribuzione dei seggi e di un gruppo di seggi proporzionali “compensatori” serviva anche per “salvare” i leader dei partiti dal rischio di sconfitta nell’uninominale.

Calderoli e il colpo basso

Nel 2005 il sistema è stato modificato quale meccanismo difensivo in risposta alle previste potenziali perdite della coalizione di centro-destra. L’obiettivo implicito era ostacolare il probabile successo del centrosinistra e risiedeva in tre aspetti: 1) la nazionalizzazione della competizione, ritenuta vantaggiosa per Forza Italia, a causa del divario tra l’appello dei suoi candidati e quello del suo capo; 2) il conferimento del premio di maggioranza e la concentrazione geografica del sostegno del centrodestra in due grandi regioni del nord; e, 3) differenziare la base di ripartizione dei seggi nelle due Camere. Un sistema proporzionale a liste chiuse assegnava un bonus – 55 per cento dei seggi – al partito o alla coalizione pre-elettorale che avesse ottenuto il maggior numero di voti. La legge obbligava le liste in coalizione a aderirvi formalmente specificando il nome del capo politico. Al Senato il bonus veniva assegnato su base regionale: vincere nelle regioni più popolose e con grandezza distrettuale maggiore aumentava la possibilità di ottenere la maggioranza nella camera alta. Date le roccaforti elettorali dei partiti, era probabile avere un “governo diviso” tra Camera e Senato. 617 seggi assegnati tra i partiti che avessero superato, alla Camera, su base nazionale: 10 per cento per una coalizione (a condizione che almeno una lista ottenesse il 2 per cento); 4 per cento per i singoli partiti; 2 per cento per qualsiasi partito in una coalizione, ad eccezione del primo partito al di sotto del 2 per cento nella coalizione.

Per il Senato, su base regionale: 20 per cento per una coalizione (a patto che almeno una lista avesse il 3 per cento); 8 per cento per qualsiasi partito autonomo; 3 per cento per qualsiasi partito in coalizione. Inoltre, le pluricandidature, e le successive “opzioni” nel collegio scelto, accrescevano il potere dei capi partito. Nel 2014 la Corte costituzionale ha dichiarato la legge incostituzionale; inapplicabile il premio di maggioranza, e precisando che l’elettore dovesse poter esprimere un voto di preferenza, reintroducendo de facto il sistema in vigore dal 1991 al 1993.

Italicum, la riforma immaginata

Fortemente voluta dal Pd, da Matteo Renzi e con l’iniziale sostegno di Forza Italia, la legge elettorale approvata nel 2015 prevedeva un bonus, non a una coalizione, ma alla lista più votata. 340 parlamentari purché raggiungesse il 40 per cento a livello nazionale: viceversa, due settimane dopo si sarebbe svolto il ballottaggio per il quale non erano ammesse alleanze formali (c.d. apparentamento). L’Italicum prevedeva una sola soglia: il 3 per cento dei voti a livello nazionale. L’elettore poteva esprimere fino a due preferenze (il capolista però era tutelato) e rispettando l’equilibrio di genere. La legge avrebbe funzionato nel combinato disposto dell’abolizione del Senato e quindi sarebbe stata applicata solo alla Camera. La Corte costituzionale nel 2017 è intervenuta invalidando parti di legge.

Rosato, un mix complicato

Dopo il referendum costituzionale del 2016 è stata approvata un’altra legge elettorale, ancora in vigore. Un sistema misto maggioritario posto che i due livelli lavorano in parallelo, ossia i seggi vinti nella parte proporzionale e maggioritaria sono sommati. Il 37 per cento (148 alla Camera e 74 al Senato) è allocato con sistema maggioritario a turno unico in collegi uninominali; il 61 per cento dei seggi (rispettivamente 244 e 122) è ripartito proporzionalmente tra le coalizioni e le liste che abbiano superato le soglie di sbarramento.

Alla Camera 3 per cento dei voti per le liste, mentre al Senato 20 per cento dei voti a livello regionale. Le liste sono bloccate e ogni lista è tenuta a indicare il capo politico e le eventuali forze politiche con cui procedere a formare delle coalizioni, cui il candidato nell’uninominale viene associato nella componente maggioritaria.

I dati

Per quasi cinquant’anni il sistema politico fu caratterizzato da governi fortemente instabili anche a causa della frammentazione del sistema partitico, seppur con stabilità del personale politico e governativo. Con la crisi del 1991-93, e a seguito dell’arrivo di un attore politico polarizzante – Berlusconi –, il sistema dei partiti e la competizione elettorale si sono mossi verso un quadro bipolare. Dal 1994: sei avvicendamenti di potere tra coalizioni di centrodestra e di centrosinistra. Diciotto governi (tre guidati da tecnici), dodici primi ministri, due coalizioni sovradimensionate e tre cambi di maggioranze parlamentari durante la stessa legislatura. Lo scioglimento anticipato del Parlamento, il cambio di Presidenza del Consiglio dei ministri, il mancato sostegno della maggioranza parlamentare e la conseguente instabilità (sebbene passata da 11 a 18 mesi dopo il 1992) e frammentazione dei partiti sono rimaste caratteristiche del sistema politico nonostante le riforme del 1994 e del 2005.

Volatilità e irresponsabilità

Tra il 1994 e il 2001 un elettore su quattro ha cambiato opinione di voto tra due elezioni, mentre nel 2013 si è avuto il picco del 39 soprattutto per il successo del M5s (in larga parte dovuto ai giovani). Il caso italiano ha dimostrato empiricamente che il sistema elettorale da solo non può cambiare il sistema politico se non accompagnato da partiti forti e nazionali. Il ruolo del parlamento rimane cruciale per l’importanza degli accordi, ma l’incapacità dei partiti di guidare chiaramente il governo ha conferito più potere al presidente del Consiglio. Il cortocircuito tra partiti e parlamento ha fortemente frustrato sia le scelte che le aspettative degli elettori con politiche incomplete o parziali. Il bicameralismo paritario, unicum tra le democrazie parlamentari contemporanee, contribuisce all’instabilità politica e alla ridondanza decisionale. L’Italia manca ancora di una legge elettorale coerente e non si può dare per scontato che il parlamento ne approvi una. Adeguata.

Sotto il cielo elettorale italiano, sembra che succedano tante cose e nulla cambi.

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