Riesplode la “questione morale” e ovviamente tutti corrono a citare l’intervista che Enrico Berlinguer concesse a Eugenio Scalfari nel 1981. Compiendo consapevolmente un gesto politicamente molto scorretto io vi ripropongo invece le riflessioni che, in un’intervista che gli feci per Telemontecarlo nell’autunno del 1999, mi affidò, poche settimane prima della sua morte, Bettino Craxi. Ovvero, secondo la vulgata del circolo mediatico-giudiziario, Ghino di Tacco, l’Uomo nero con gli stivaloni raffigurato da Forattini, il Corrotto, l’uomo che Tonino Tatò, segretario di Enrico Berlinguer, definì nel 1976, ben prima che esplodesse Tangentopoli, «un bandito politico di alto livello».

Oppure Craxi Benedetto, detto Bettino, nato a Milano nel 1934, capo dei socialisti italiani, primo presidente del Consiglio di sinistra, statista che accettava di schierare gli euromissili contro gli SS20 sovietici ma anche i nostri soldati contro i marines americani nella base di Sigonella. Ripropongo le sue parole non solo sfuggire alla moralistica contrapposizione tra due figure rappresentate come il Bene (Enrico) contro il Male (Bettino) – ma perché credo che la versione di Bettino possa aiutare a comprendere perché ci fu Tangentopoli, a squarciare il velo di ipocrisia che la sinistra post comunista ha steso sul modo in cui si finanziava il Pci, e a superare quella damnatio memoriae che ha cancellato la storia di uno dei più importanti leader della sinistra del dopoguerra, con i suoi errori e i suoi meriti.

So benissimo che Bettino Craxi subì due condanne definitive. A me in questa sede non interessa entrare nel merito di quelle accuse, coperte ormai dall’oblio della morte. Mi interessa però sottolineare un punto: nessuno, neppure chi l’ha indagato e fatto condannare, ha mai potuto dimostrare che Craxi avesse fatto tutto ciò di cui fu accusato per sé. Anzi, in un’intervista concessa a Giuliano Ferrara per il Foglio nel 1996, l’ex procuratore aggiunto di Milano, Gerardo D’Ambrosio, ammise che Craxi non si arricchì personalmente.

Visto lo scandalo sollevato dalla sua affermazione (in particolare Indro Montanelli accusò Ferrara di aver travisato le parole del magistrato) D’Ambrosio intervenne e precisò che egli aveva avviato inchieste per appurare se Craxi avesse personalmente preso soldi, e poi però aggiunse: «Finora nessun processo ha giudicato Craxi colpevole di essersi arricchito personalmente. Le nostre opinioni, poi, possono essere diverse. Ma non sono prove, non sono verità riconosciute dalla giustizia come tali. Per ora non sarei un magistrato corretto se non dicessi che l’unica certezza che si può esprimere nei confronti di Craxi sul piano giudiziario è quella che deriva dalla sua stessa confessione, resa nell’aula della Camera, quando dichiarò di essere a conoscenza del sistema di finanziamenti illeciti che governava il rapporto tra politica e imprese».

Che Craxi fosse responsabile, come tutti i leader politici del tempo, del finanziamento illecito della politica, lo ammise egli stesso, con un memorabile discorso parlamentare nell’aula della Camera dei deputati il 3 luglio del 1992.

Nessuno rispose al suo appello. Nessuno accettò di fare il discorso di verità che Craxi chiedeva a tutti i leader politici. I leader democristiani perché, corrosi dal lungo esercizio del potere, dopo la sconfitta del coraggioso tentativo di rinnovamento di Ciriaco De Mita, pensavano di potersi salvare tacendo, invece si stavano scavando la fossa. Quelli post comunisti perché ritenevano che, avendo stabilito rapporti speciali con la magistratura per ragioni del tutto nobili, la lotta al terrorismo e alla mafia, si fosse creata una sorta di cortina di protezione la cui esistenza fu dimostrata dalla candidatura qualche anno dopo del giudice simbolo di quella stagione, Antonio Di Pietro, una specie di antenato più ruvido dei grillini, nel collegio (allora) rossissimo del Mugello.

Non è quello giudiziario l’aspetto principale sul quale voglio soffermarmi, dunque, ma sulla lucidità con la quale il leader socialista, nel suo discorso alla Camera, denunciava la crisi di un sistema che, mentre i grandi poteri economici si rafforzavano globalizzandosi, non si poneva il problema del finanziamento pubblico e lecito della politica mentre le grandi imprese sovranazionali e le grandi potenze sfruttavano questa debolezza per corrompere e acquisire posizioni di vantaggio. La narrazione prevalente racconta una storia affatto diversa: le imprese sane vittime della protervia e dell’avidità dei politici. Craxi non accettò mai questa lettura e vide che dietro le tricoteuse che assistevano sferruzzando alle esecuzioni sulla piazza mediatica si celava un assalto senza precedenti alla democrazia italiana: qualche mese più tardi, davanti all’hotel Raphael, una folla assetata di vendetta, guidata dai forcaioli leghisti e fascisti, cui si erano mischiati anche militanti di sinistra, lo coprirono di monetine dopo che la Camera aveva votato contro l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti.

Era stato tutto ben organizzato: leghisti e fascisti nel segreto dell’urna aveva votato contro proprio per poter organizzare quella piazza. Io allora ero direttore di Italia radio, la radio del Pds. Fummo sommersi di telefonate indignate, di fax, di inviti a fare qualcosa ma pur partecipi di quel clima non incitammo mai, dico mai, al linciaggio e men che meno a mischiarsi a quella folla giustizialista, contrariamente a quanto afferma Mattia Feltri nel suo pregevole libro sull’anno di Tangentopoli. La radio invitava a partecipare a una manifestazione del tutto diversa, lì vicino, a piazza Navona, con Achille Occhetto e Francesco Rutelli e se qualcuno poi decise di unirsi all’atto scellerato del lancio delle monetine non fu certo su mio invito.

Un autunno ad Hammamet

Nell’autunno del 1999 soffiava un forte vento di scirocco su Hammamet. Eravamo sul finire di ottobre, un febbrone aveva tormentato Craxi per tutta la notte. «Mi cogli in un brutto momento, ho passato una pessima notte», mi disse. Aveva l’aria febbricitante e una brutta tosse, ma non volle rinviare l’appuntamento, quasi avesse un’urgenza di dire. Non sospettava certo che il febbrone sarebbe poi sfociato in una crisi gravissima provocata dal diabete. Si rese necessario un intervento chirurgico per un tumore al rene e le successive complicazioni lo condussero alla morte il 19 gennaio del 2000, esattamente ventitré anni fa.

Craxi amava la Tunisia e Hammamet, dove aveva comprato casa negli anni Sessanta, per cinquanta lire a metro quadro su una collina isolata chiamata “degli sciacalli e dei serpenti”. In Italia si diffondevano le descrizioni fantasiose: una villa sfarzosa, la residenza di un satrapo, un Alì Babà, nella quale mancavano solo le odalische danzanti, nei racconti spuntavano rubinetti d’oro e altre meraviglie, nel giardino il “gangster” si era addirittura fatto portare la fontana del castello di Milano, come ogni Al Capone che si rispetti. Peccato che fossero tutte fake news, come diremmo oggi. Quando la vidi di persona potei verificare l’abisso di distanza da quelle descrizioni che comunque servirono a eseguire alla perfezione la distruzione dell’immagine (gli americani dicono character assasination) di un leader politico la cui storia, piena di errori e ombre ma anche di cose giuste e luci, doveva invece essere rappresentata solo nella dimensione criminale.

Vidi un bellissimo giardino, pieno di palme dalle foglie larghe, un portico ombreggiato che girava attorno alla casa, con un grande tavolo ricolmo di carte, dove si sedette per l’intervista. Non vidi nulla di sfarzoso, né di volgare. Craxi vestiva la sahariana color sabbia che era l’abbigliamento degli anni arrembanti e garibaldini.

Attorno al patio le sue sculture, una su tutte: un vaso molto panciuto segnato dalle lacrime tricolori che s’intitola l’Italia che piange. Volle donarmene un esemplare e me lo autografò. Mentre scrivo, nel mio piccolo studio, posso girarmi e guardarlo, anche se l’usura del tempo e un’incauta collocazione nel giardino hanno completamente scolorito la firma.

Non è sbiadito in me però il ricordo di quell’incontro, le parole, gli sguardi, i gesti, i silenzi. Le lunghe e famose pause che ne denotavano l’eloquio, come sempre fluente e avvolgente, pur se mi sembrò essersi fatto più riflessivo. Mi parve un Craxi più intimo, fragile, non rassegnato, questo no, ma sfinito sì. L’intervista durò circa un’ora ma la conversazione molto di più, tra montaggio e smontaggio del set, piccoli incidenti, telefonate che ci costrinsero a interrompere e riprendere la conversazione. Rispetto al Craxi forte e decisionista, persino arrogante, che avevo conosciuto, m’apparve fragile e indifeso, sia pure pronto alla zampata polemica, per esempio quando gli domandai perché non tornasse in Italia per farsi processare. Si arrabbiò talmente che fece cadere il microfono e dovemmo interrompere l’intervista per rimetterglielo.

La domanda e l’insistenza era obbligate, ma sbagliate.

Ero stato il notista politico de il manifesto nel periodo in cui Craxi fu presidente del Consiglio (1983-1987). Non gli risparmiammo critiche durissime, soprattutto nella vicenda della scala mobile, o sull’installazione degli euromissili, essendo noi il giornale espressione dei movimenti pacifisti partiti dalle contestazioni della base di Comiso, in Sicilia. Tuttavia, eravamo lo stesso giornale che aveva accolto senza pregiudizi la sua ascesa alla guida del Psi, apprezzandone soprattutto l’intenzione iniziale di spezzare la cappa del compromesso storico lanciando l’alternativa di sinistra, e il tentativo di incrinare il fronte della fermezza durante il sequestro Moro. E non infierimmo mai sulle sue vicende giudiziarie, tendendole ben distinte dal giudizio sulla parabola politica di Craxi. Fu forse per queste ragioni che mi accolse con cordialità nella sua bella casa tunisina tra grandi portici e ombrosi giardini.

Il governo D’Alema

Sapendo che conoscevo bene Massimo D’Alema, allora presidente del Consiglio, chiacchierando prima dell’intervista, Craxi mi chiese di riferirgli i suoi suggerimenti per il governo che incontrava crescenti difficoltà. «Ah ma adesso D’Alema deve fare subito un rimpasto, anzi un nuovo governo. Va da Ciampi e si fa dare il reincarico e cambia dieci ministri. Ma scusa mi vuoi citare un solo nome di un ministro popolare? E stiamo qui a perder tempo? È invischiato? Si lo è, e infatti...ma dovrebbe andare da Ciampi e spiegargli cosa vuol fare, dirgli che vuole cambiare tutti i ministri, se possibile allargare la coalizione di governo a qualche altro pirla…e allora presenta una nuova compagine di governo cui il paese guarda con attenzione e attesa. Diglielo tu a D’Alema!».

Continuava a sentirsi un uomo di sinistra: «Io sono figlio di una storia», mi disse con orgoglio e alle vicende della sinistra continuava a interessarsi. La nostra lunga conversazione toccò diversi argomenti, dagli scenari internazionali, in particolare la vicenda degli euromissili, ai rapporti con Berlinguer, alla vicenda giudiziaria. Ci davamo del tu, che lui mantenne anche nell’intervista, mentre io ero passato a un più formale lei. Non so se già avvertisse la fine, certo era un Craxi crepuscolare, malinconico, sentimentale, nel parlare del suo paese e di quello che l’aveva ospitato dopo la fuga. Mescolava nostalgia e risentimento: «Certo che voglio tornare, ma da uomo libero. Non dimentico che la storia la scrivono sempre i vincitori e l’Italia ha adottato l’antico detto: guai ai vinti».

L’archivio Mitrokhin

La conversazione partì da un tema di grande attualità in quei giorni, l’archivio Mitrokhin, un ex archivista del Kgb il cui archivio rivelava notizie (non tutte fondate) sulle attività illegali dei servizi segreti sovietici in Italia.

Craxi aveva un’aria stanca: «Premetto che mi hai preso in una mattina in cui sono fuori gioco, ho avuto per tutta la notte un febbrone che mi ha steso...», mi disse.

Cercheremo di ovviare, non la faremo stancare presidente...

«....cercheremo di non aggredire, eh, eh, eh. L’affaire Mitrokhin non è una bufala: è un capitolo di un libro, non sappiamo se completo o incompleto, ma che certamente non esaurisce il problema della presenza e dell’influenza dei servizi del patto di Varsavia in Italia. Che poi ci pone un altro grande problema che è quello del finanziamento dei comunisti italiani o di alcune loro frazioni. Non credo che sia una bufala, pur se l’affare mi pare sia stato trattato con una certa leggerezza. C’è molta gente che non ha nulla a che vedere con il Kgb (sorride) e si è vista appioppare l’epiteto di spia, cosa del tutto irragionevole e ingiusta».

Dal rapporto emerge l’interessamento del Kgb nei confronti dei movimenti pacifisti contro l’installazione degli euromissili. Lei ebbe l’impressione di trovarsi di fronte a un movimento di spie?

(Mentre ascolta muove le dita intorpidite della mano sinistra)

«No. Tuttavia, a fianco del fondo internazionale di solidarietà tra i partiti comunisti, che risale al 1974, successivamente fu fatto dall’Urss un fondo per la pace che aveva una consistenza finanziaria superiore al primo fondo e non c’è dubbio che esso fu usato per sostenere un movimento pacifista a senso unico, anche se esiste un sentimento pacifista che è un sentimento naturale e indipendente, ma non c’è dubbio che certe campagne e certe manifestazioni furono sostenute: lo pensavo allora e lo penso adesso. Ero a Mosca da presidente del Consiglio, mentre era aperta la questione degli euromissili che stavo decidendo di installare sul suolo italiano. Alloggiavo in una villa ed ero a cena con mia moglie e i miei familiari, quando arrivò Gromyko, ministro degli Esteri, accompagnato da un interprete. Si sedette a tavola con noi, come se fosse una specie di nonno e cominciò a dirmi: “Ma tu perché vuoi installare questi missili? Così peggiori la situazione” (scaccia una mosca fastidiosa che gli ronza da un po’ sulla fronte) e io gli risposi: “Togliete voi i missili puntati sull’Europa e noi rinunceremo a installare gli euromissili”.

(Lo ripete due volte come era solito fare quando voleva sottolineare l’importanza di un passaggio). La decisione italiana di installare gli euromissili risulterà molto importante nella storia del mondo, nella storia della pace nel mondo. Lo riconosce per esempio Shevardnadze il quale sostiene che l’Italia, aprendo la strada all’installazione degli euromissili in Europa, pone il gruppo dirigente sovietico dinnanzi alla necessità di riflettere e da lì cominciò la disponibilità al negoziato che poi si concluse con l’azzeramento degli euromissili da una parte e dall’altra, che fu il primo grande passo per la fine della Guerra fredda. In quella situazione internazionale così difficile l’Italia ebbe un ruolo importante e molto coraggio, nonostante i pacifisti che stavano in piazza senza avere le idee molto chiare».

Ma anche i pacifisti che dicevano che i missili non andavano messi né da una parte né dall’altra qualche ragione ce l’avevano, o no?

«Ma questi pacifisti erano una minoranza, perché la maggioranza era abbastanza a senso unico, e comunque tra i pacifisti che non volevano i missili né da una parte né dall’altra c’ero anche io».

Cosa fa pensare, a lei che è stato il più tenace avversario politico di Enrico Berlinguer, leggere dagli archivi che l’Urss lo considerava il suo peggior nemico?

(Si inalbera un po’).

«Intanto, io non sono mai stato avversario tenace di Enrico Berlinguer, semmai è lui che mi ha sempre considerato un avversario politico. Io ho sempre cercato di trovare un modo d’intesa...»

Questa è la sua lettura di questa vicenda...

«Questa è la verità, come la storia si incaricherà di dimostrare. Con Enrico, che conoscevo sin da ragazzo, ho sempre cercato di trovare una strada verso il futuro, perché il presente non offriva le condizioni per quell’alternativa di cui lui parlava e che, nelle circostanze date, avrebbe causato la sconfitta secca della sinistra in Italia. Io cercavo di creare via via le condizioni per un miglioramento dei rapporti a sinistra».

Non pensa che se, invece che chiudersi nel rapporto con la Dc avesse puntato di più sull’evoluzione del Pci, le cose sarebbero andate diversamente, il cambiamento della sinistra sarebbe stato più rapido?

(Si gratta il piede ammalato)

«Sono cose difficili da valutare. Io non mi sono mai spiegato perché in Berlinguer ci fosse un così radicato antisocialismo, un pregiudizio di fondo: “Io resto fedele agli ideali della mia gioventù”, dice Enrico, e gli ideali della sua gioventù sono che lui, figlio di un socialista, a un certo punto abbraccia gli ideali comunisti. Può darsi che io non abbia fatto tutto quello che avrei potuto fare, questo può anche darsi...(pausa) ma non trovai la via. Neppure dopo, sebbene mi fossi fatto delle illusioni...(pausa) sai... perché io mi sento figlio di una storia, di una tradizione, anzi, di diverse tradizioni... di un mondo, della società politica italiana ed europea. E così avevo immaginato tutta un’evoluzione della situazione che invece è andata per aria (sorriso amaro) con il risultato che oggi la sinistra in Italia è quello che è: una minoranza. È stata provocata la diaspora dei socialisti, distrutti e dispersi, colpiti da una vera e propria persecuzione. Voi non avete idea, e delle volte non ce l’ho neppure io, di quale sia stata la persecuzione verso i socialisti... (il tono della voce si alza) Lasciamo stare Craxi... che scompaia Craxi... (Si agita e perde il microfono, ci dobbiamo fermare per risistemarlo. Operazione che dura qualche minuto, un po’ laboriosa. Lui è paziente ma è stanco e mi fa segno con le mani, come a dire: stringi, chiudiamo, ma in verità non ha alcuna voglia di smettere di parlare. Poi fa una battuta al cameraman che cercava di sistemargli il microfono: «Mettimelo sul naso»)....Lasciamo stare il caso Craxi, io sono abbastanza forte per reggere l’urto degli avvenimenti e della condizione nella quale sono costretto a vivere. Ma la persecuzione nei confronti dei socialisti è socialisti stata impressionante in tutto il paese e si è creata una diaspora: nel 1992 i socialisti raccolsero 5.900.000 voti. E la diaspora di quei voti non ha certo favorito nessuna sinistra di alcun tipo».

Lei si sente un perseguitato politico?

(Il tono della voce si alza)

«Io non “mi sento” un perseguitato politico, io “sono” un perseguitato politico. Contro di me è stata organizzata una vera e propria persecuzione...»

Ma ci sono le sentenze…

«Baaah!!!...io ho subito processi speciali, sentenze senza prove, trattamento altamente speciale e privilegiato, a velocità supersonica, in un paese dove notoriamente la giustizia ha il piede lento».

Perché non torna a farsi processare in Italia?

«Non torno perché difendo la mia libertà. Io qui sono un uomo libero e difendo la mia libertà che qui viene protetta. Non ho alcuna intenzione di difendermi in Italia, e di fronte a chi, di fronte a chi?»

Davanti ai tribunali...

«Ma quali tribunali! E quali magistrati! Quelli che mi hanno trattato come un criminale qualsiasi e condannato senza alcuna prova? Lasciamo stare, lasciamo stare! Osservo solo che dieci anni fa, non adesso, posi di fronte al parlamento della repubblica i problemi di cui ora si parla. La cosa strana con cui siamo alle prese è che si è voluta cancellare tutta una fase della storia del nostro paese invece che riscriverla correttamente, con animo sereno e spirito critico senza aprire traumi. Bisognava riscrivere insieme la storia del dopoguerra italiano si è voluto cancellare tutto, a destra come a sinistra. Lo sa come definisco questa classe politica? Io li chiamo bugiardi ed extraterrestri. Bugiardi perché molto spesso raccontano delle bugie ed extraterrestri perché si aggirano sulla scena con l’aria di quelli che hanno vissuto i vent’anni precedenti sulla luna. Questi sono extraterrestri. Purtroppo, questo è un vizio antico dell’Italia e forse non solo dell’Italia. Forse è vero che vale a distanza di secoli l’antico Vae Victis dei romani. Bisognava affrontare con serenità, senza bisogno di insultarsi reciprocamente, quella realtà, documenti alla mano e valutando le responsabilità di tutti per un periodo della storia italiana. Perché dobbiamo andare avanti e i giovani è giusto che sappiano per potersi meglio assumere le proprie responsabilità».

Spera di poter tornare in Italia?

«Certo che spero di poter tornare in Italia (lo ripete due volte). Anche se qui vengono molti italiani, seguo le vicende italiane come un pensionato, uno che guarda ma che non può fare nulla. Anzi, un pensionato può fare molto più di me, può partecipare, lavorare. iscriversi a un sindacato. Io sono in una condizione più difficile e cerco ugualmente di sopravvivere e ci riesco. E ci riesco!»

Sarebbe disposto a pagare qualcosa, dal punto di vista delle sue vicende giudiziarie, pur di tornare in Italia?

«Ogni tanto rifletto su questo punto. Per ragioni familiari, di contesto, io ho partecipato alla vita politica italiana sin da ragazzo. Ho dedicato alla politica decenni, tutta la mia vita, praticamente. E l’ho fatta sempre seguendo degli ideali, degli obiettivi, delle cause che mi sembravano giuste e che poi invece magari non lo erano. Sono stato eletto consigliere comunale per la prima volta a 22 anni. Ho lavorato per il mio paese, ho fatto tantissime cose. Io credo di aver aiutato il mio paese in un momento difficile a chiudere il capitolo della crisi economica, del terrorismo, a chiudere il capitolo della subalternità dell’Italia dovuta alla sconfitta bellica, riportando l’Italia al vertice dei grandi paesi del mondo. Io penso che l’Italia mi debba qualcosa. Non debbo pagare, io penso che l’Italia mi debba qualcosa...»

Non crede che se accettasse con più serenità di affrontare il giudizio dei tribunali italiani, anche il giudizio sulla sua storia politica potrebbe essere più equanime?

«Io penso che tu parli di cose che non conosci. (Ora è davvero arrabbiato). I tribunali mi hanno condannato per fatti ai quali io sono totalmente estraneo e senza uno straccio di prova. Con un comportamento diverso rispetto a casi analoghi che si svolsero parallelamente. Giustizia politica, due pesi e due misure! (lo ripete due volte). Uno stato di diritto questo non lo doveva consentire. E mi auguro che venga il giorno in cui tutte le cose vengano messe al loro posto. Questo è quello che penso e non credo di essere esagitato. Quando ripenso alla mia vita politica, agli amici e agli avversari, alle cose fatte, mi dico: io il mio dovere l’ho fatto».

Grazie Presidente

«Grazie a te, sei davvero gentile».

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