L’eco della sentenza della Corte suprema americana che ha superato la sentenza Roe vs Wade e abolito il diritto costituzionale all’aborto sta toccando anche in Italia.

I due sistemi giuridici sono imparagonabili e la differenza pratica si fonda sul fatto che il parlamento italiano ha approvato legge, la 194 del 1978, che disciplina il diritto all’aborto, gli Stati Uniti non hanno mai avuto una legge e l’interruzione della gravidanza era garantito da una sentenza del 1973. Tuttavia, la cancellazione della destra americana di un diritto che sembrava ormai garantito ha acceso il dibattito anche in Italia.

Le reazioni del centrodestra istituzionale sono state prudenti: Giorgia Meloni ha rifiutato qualsiasi attribuzione di volontà di cancellare la legge 194, tuttavia ha detto all’Ansa che «continueremo a operare perchè venga applicata la prima parte della legge, relativa alla prevenzione, e per dare alle donne che lo volessero una possibilità di scelta diversa da quella, troppo spesso obbligata, dell'aborto».

Dalle donne di Forza Italia si è alzato un coro – dalla ministra Mara Carfagna fino a Licia Ronzulli e Anna Maria Bernini – contro un «salto indietro nel tempo», e Matteo Salvini si è limitato a dire di credere «nel valore della vita, ma a proposito di gravidanza l’ultima parola spetta sempre alla donna». Tuttavia, il senatore della Lega e membro della commissione Giustizia, Simone Pillon, che ha esultato e anche il presidente della Pontificia accademia per la vita, monsignor Vincenzo Paglia Chiesa, Monsignor Vincenzo Paglia, ha parlato di sentenza storica perchè il cambiamento americano «su questo tema sfida il mondo intero».

Alfredo Mantovano, vicepresidente del Centro studi Livatino, spiega infatti che «La sentenza Dobbs v. Jackson fa tornare al quadro costituzionale: non spetta alle Corti creare le norme. Spetta invece ai rappresentati del popolo, democraticamente eletti, assumere la responsabilità politica di discutere leggi anche impegnative e delicate, e solo dopo se del caso approvarle». E sulla 194 ha aggiunto che «non riconosce il “diritto” all’aborto, né formalmente né nella sua articolazione: le sue norme sulla prevenzione/dissuasione offrono alla gestante “concrete alternative”: se l’aborto fosse un “diritto” non vi sarebbe bisogno di questi percorsi».

Interpretazione, questa, che ha sollevato reazioni dal centrosinistra. «Non dobbiamo abbassare la guardia» perchè «la Corte Suprema ha rivelato brutalmente quanta strada manca per uscire davvero dalla cultura patriarcale», ha detto infatti la senatrice Valeria Valente, spiegando che le organizzazioni prolife sul modello americano «con le loro strategie di lobby politica sono presenti anche in Italia e trovano una sponda nelle formazioni politiche di destra ed estrema destra. No faremo la nostra parte per difendere i diritti delle donne».

«I commenti peggiori arrivano da uomini oltre i sessanta e senza figli, tra cui anche alti prelati cattolici. Ma davvero uomini di fede pensano che si possa aprire una riflessione che unisca - come amano dire - a partire da leggi che causano sofferenze e mettono a rischio la salute delle donne oltre a negare la loro libertà di scelta?», conclude Riccardo Magi, deputato di Più Europa e radicale italiano.

I dati italiani

A quarant’anni di distanza, tuttavia, in Italia esiste una distanza tra la teoria della legge 194 e la sua applicazione pratica. Il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza è garantito entro i primi 90 giorni della gravidanza, che però si calcolano dall’ultima mestruazione e non dal test. Per ottenere il via libera serve il certificato medico e prima dell’intervento o della pillola abortiva devono passare sette giorni di “riflessione”. Concretamente, però, il diritto ad abortire è reso più complesso o addirittura negato.

Secondo i dati dell’indagine “Mai Dati!”, condotta da Chiara Lalli e Sonia Montegiove e presentati dall’associazione Luca Coscioni, nel 2020 il 65 per cento dei medici è obiettore e può rifiutarsi di praticare l’aborto: lo sono due ginecologi su tre e un anestesista su due.L’analisi ha preso in considerazione 180 ospedali e consultori su 350 che dovrebbero garantire l’interruzione di gravidanza. Il risultato è che 26 strutture hanno il 100 per cento di medici obiettori e 18 addirittura tutto il personale (medici, inferimeri e oss) obiettore; 72 hanno una percentuale superiore al 90 per cento e 46 con una percentuale dell’80 per cento. Tradotto: una donna sola che voglia abortire difficilmente troverà vicino a lei una struttura sicura in cui farlo, rendendo così l’interruzione di gravidanza – già di per sè complicata dalle norme – legata anche alla possibilità di spostarsi dalla propria città. Il caso estremo è quello del Molise, dove ci sono 27 obiettori su 29 medici e i soli due non obiettori operano a Campobasso. Forse non è un caso, allora, che l’Italia abbia uno dei tassi di abortività più bassi al mondo, con 66mila interruzioni di gravidanza nel 2020 e un calo del 9,3 per cento rispetto al 2019. Infinitamente meno rispetto al picco di 234mila registrato nel 1983.

 

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