«Noi non abbiamo scheletri nell’armadio, non abbiamo una tradizione coloniale, non abbiamo sganciato bombe su nessuno e non abbiamo messo il cappio al collo a nessuna economia». A parlare così, qualche anno fa, era Manlio Di Stefano, allora deputato del Movimento 5 stelle e sottosegretario agli Esteri nei due governi Conte e poi con Draghi presidente del Consiglio.

Il suo pensiero non è per nulla isolato. Di Stefano non è il primo né l’ultimo della lista di chi dimentica che per 75 anni, dal 1885 al 1960, l’Italia dominò gli abitanti di quattro stati africani: Eritrea, Somalia, Libia ed Etiopia. Quella stagione non è mai entrata nel dibattito pubblico nazionale. L’Italia non pagò per i crimini commessi, coltivando invece il mito degli “italiani brava gente” e alimentando una memoria del suo passato come “colonialismo buono”.

L’idea è diffusa da destra a sinistra. «Un pugno di intellettuali politicizzati vuole riscrivere l’epopea tricolore d’oltremare. Ma basta fare un viaggio laggiù per vedere il buon ricordo della nostra gente», ha scritto su La Verità il responsabile cultura di CasaPound. E pochi giorni fa, a Propaganda Live, una firma di valore come Filippo Ceccarelli si è lasciato sfuggire che «l’Italia è un paese senza colonialismo». Un’espressione infelice – il riferimento era al Medio Oriente nel secondo dopoguerra – che è bastata per attirargli critiche sui social.

La proposta di legge

Riportare alla luce la questione dei crimini di guerra italiani e avviare un processo di analisi critica è l’obiettivo della proposta di legge per «l’istituzione del giorno della memoria per le vittime del colonialismo italiano», presentata martedì da Laura Boldrini, deputata del Partito democratico. Con lei, in conferenza stampa alla Camera, c’erano Nicola Fratoianni di Alleanza verdi e sinistra e Riccardo Ricciardi del M5s. Il tutto sotto l’ombrello dell’Anpi, per cui è intervenuto il presidente Gianfranco Pagliarulo.

«La giornata di ricordo che vogliamo fissare per il 19 febbraio, anniversario della strage di Addis Abeba, è l’occasione per avviare un processo di studio e riflessione che coinvolga le giovani generazioni e le comunità afrodiscendenti – ha detto Boldrini, prima firmataria della proposta – Un modo per ricordare gli eccidi, le campagne militari, le leggi razziali, la deportazione e la prigionia di cui ci macchiammo».

«È chiaro che, con questa maggioranza, in parlamento non ci sono i numeri per far passare la legge – ha subito riconosciuto Fratoianni – Ma intanto noi poniamo il tema. Il colonialismo spiega il pregiudizio razzista che ancora oggi pervade le pieghe più nascoste della società italiana. Un razzismo ordinario che può esplodere in episodi terribili o continuare a covare sotto la cenere».

Quattro colonie

La “piccola” storia coloniale dell’Italia si può dividere in due fasi. La prima espansione, a cavallo tra Otto e Novecento, per volere del leader della sinistra storica Agostino Depretis e poi di altri presidenti del Consiglio del Regno – come Francesco Crispi e Giovanni Giolitti – che guidarono una serie di spedizioni per colonizzare due stati nell’Africa orientale, l’Eritrea e la Somalia, e uno nel Maghreb, la Libia.

C’è poi la seconda fase, in epoca fascista. Tra il 1929 e il 1930 il maresciallo Pietro Badoglio e il generale Rodolfo Graziani ebbero l’incarico da Mussolini di “pacificare” il Fezzan e la Cirenaica: un via libera per sterminare la resistenza armata e spopolare intere regioni. Per togliere sostegno alla ribellione antitaliana, 100mila abitanti dell’altopiano di Gebel furono deportati nei campi di concentramento. Le esecuzioni sommarie e la mancanza di cibo e acqua portarono alla morte di 50mila persone.

Ma tra le quattro colonie quella che gli italiani conoscono di più è l’Etiopia, conquistata dal duce tra il 1935 e il 1936. Un’impresa gigantesca per cui il regime impiegò carri armati, aviazione militare, bombardamenti (di cui una piccola parte con il gas nervino). Dopo la fine della seconda guerra mondiale i governi italiani chiesero l’amministrazione fiduciaria delle colonie, in vista dell’indipendenza. Ci venne negata in Eritrea e in Libia ma concessa in Somalia fino al 1960.

La strage di Yekatit 12

Il punto più basso del colonialismo italiano è rappresentato dalla strage di Addis Abeba del 1937. Era il 12 del mese di Yekatit, che nel calendario etiope corrisponde al nostro 19 febbraio. Quel giorno, dopo che partigiani etiopi cercarono di uccidere il viceré Rodolfo Graziani, i soldati fascisti massacrarono migliaia di uomini, donne e bambini. Una cieca rappresaglia che vale la pena rivivere tramite le parole dello storico David Forgacs, che ricostruisce l’accaduto in Messaggi di sangue (Laterza 2020):

«Il 19 febbraio, poco prima di mezzogiorno, nove bombe a mano furono lanciate durante una cerimonia nel cortile del palazzo Guenete Leul, ad Addis Abeba. Bersaglio principale dell’attentato, opera di due soli uomini, era il maresciallo Rodolfo Graziani, che officiava la cerimonia […]. Graziani venne ferito dalle schegge delle esplosioni ma non ucciso e fu trasportato all’ospedale in automobile.

Il lato anteriore del palazzo era difeso da soldati italiani, carabinieri e ascari, che reagirono contro 3.000 etiopi, per la maggior parte poveri e anziani, stipati nel cortile adiacente. L’eccidio durò quasi tre ore, tutte le persone davanti al palazzo furono uccise. Era solo la prima ondata di un massacro che si sarebbe allargato alle zone residenziali: l’uccisione dei civili continuò per altri due giorni e causò la morte di oltre 4.000 persone».

Le violenze furono perpetrate soprattutto da camicie nere e civili italiani: alla “caccia al nero” si unirono anche operai, burocrati e impiegati coloniali, che massacrarono gli etiopi a fucilate e manganellate; dando fuoco alle loro case o investendoli con i camion. Il regime provò a mantenere il silenzio sull’eccidio tagliando i cavi telefonici, ma osservatori delle ambasciate straniere fecero trapelare la notizia al Times di Londra e al New York Times.

Ma la ferocia del colonialismo non si vide solo nelle stragi e nelle deportazioni. Fu anche apartheid razzista e sessista, costruita con norme e sentenze a partire dal ’37, quando il governatore dell’Eritrea, Vincenzo De Feo, vietò la coabitazione di cittadini italiani e sudditi autoctoni e stabilì pene in caso di «rapporti promiscui». Obiettivo delle politiche segregazioniste era mantenere la società coloniale «razzialmente pura».

Vie e monumenti

In Italia «le grida di quegli spettri restano sepolte sotto decenni di oblio e di svilimento. Le nostre città ne sono piene, eppure non li notiamo, non capiamo cosa dicono, leggiamo i loro nomi e non li riconosciamo», ha detto lo scrittore Wu Ming 2 riferendosi a lapidi, edifici e targhe stradali: migliaia di luoghi, su e giù per l’Italia, che «ci parlano invano del passato coloniale o ci ripetono che fu un’impresa eroica e patriottica».

Da tempo il collettivo Wu Ming è impegnato nella mappatura di strade e monumenti dal sapore coloniale. Solo a Roma ci sono vie dedicate a Reginaldo Giuliani, Antonio Locatelli e Alfredo De Luca, che con l’aviazione fascista portarono morte e distruzione in Etiopia. Piazza dei Cinquecento, davanti alla stazione Termini, è intitolata ai soldati italiani caduti nella battaglia del 1887 a Dogali, in Eritrea.

E nel tranquillo borgo di Affile, fuori Roma, «sopravvive il mausoleo dedicato a Graziani, inaugurato nel 2012 da Francesco Lollobrigida, ieri assessore in regione e oggi ministro nel governo Meloni», ha ricordato Boldrini in conferenza stampa, mentre il nome del “maresciallo dell’aria” Italo Balbo risuona nelle 21 vie d’Italia che ancora lo omaggiano.

Uno sguardo diverso

Nel 2020, sulla scia delle proteste di Black Lives Matter, è stata lanciata una petizione per cambiare nome alla fermata Amba Aradam, sulla linea C della metropolitana di Roma: per togliere il riferimento alla cruenta battaglia della guerra d’Etiopia (diventata anche un curioso modo di dire) e intitolarla al partigiano italo-somalo Giorgio Marincola. In consiglio comunale sono state approvate mozioni in tal senso e il nome della stazione sarà presto cambiato in Porta Metronia.

L’Assemblea capitolina ha poi adottato una mozione che la impegna a «risignificare i luoghi dedicati alle conquiste d’Africa». Un passaggio accolto con gioia da Rete Yekatit 12-19 febbraio, che mantiene vivo il ricordo della strage: «Con interventi di contestualizzazione e didascalie dobbiamo modificare gli odonimi della città. Non cancellare ma aggiungere riferimenti agli episodi storici, in gran parte criminali, a cui le intitolazioni si riferiscono».

Su questo insiste anche la proposta di legge presentata alla Camera: «È sorto un movimento di decolonizzazione dello sguardo che chiede di assegnare un significato nuovo, veritiero e più giusto a quelle tracce – si legge nella relazione introduttiva – È venuto il momento di discuterne, con un percorso di riflessione che coinvolga storici, istituzioni e scuole». Senza continuare a sperare nell’oblio.

Il testo della proposta di legge

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